Realtà aumentata, teatro diminuito
di Antonino Trotta
Il dittico Sull’essere angeli/Pagliacci inaugura la stagione autunnale del Teatro Carlo Felice di Genova: se il lavoro di Francesco Filidei, proposto in prima assoluta nella versione di balletto, convince specialmente per l’impianto musicale, la nuova produzione di Pagliacci invita a riflettere sull’uso della tecnologia nel teatro d’opera. Nel cast spiccano il Canio di Fabio Sartori e la direzione di Andriy Yurkevych.
Genova, 17 ottobre 2021 – Non c’è da stupirsi se, soprattutto negli ultimi anni, la tecnologia è diventata parte integrante e risorsa assai preziosa del teatro d’opera: il desiderio di stupire il pubblico con effetti speciale, in fondo, accompagna il melodramma fin dai suoi esordi e nel corso del tempo ha sempre spinto l’onerosa operazione di messinscena a fare tesoro delle ultime diavolerie concepite dall’uomo. Così per l’inaugurazione della stagione autunnale, il Teatro Carlo Felice di Genova propone lo strano dittico Sull’essere angeli/Pagliacci con un nuovo allestimento dell’opera di Leoncavallo che ricorre all’utilizzo delle proiezioni in chroma key, che qualcuno un po' impropriamente definisce realtà aumentata e che a ben vedere in teatro sono state già ampiamente utilizzate negli ultimi lustri, per esempio da Giorgio Barberio Corsetti.
Cosa si celi dietro a nomi altisonanti che promettono tanto e offre poco, è facile spiegarlo: sul palcoscenico un enorme green screen permette di proiettare, su un secondo pannello calato in proscenio, le immagini degli artisti su sfondi virtuali di carattere fantastico. Pur soprassedendo sul fastidioso ritardo tra le proiezioni e la realtà, dovuto a inevitabili latenze di elaborazione, sulla qualità delle immagini virtuali, molto simili a quelle di un videogioco di fine anni Novanta – purtroppo con la tecnologia è così, siamo così allenati a tenere il suo passo che i prodotti di un mese fa ci sembrano già preistoria – e sulla natura arzigogolata e macchinosa di quest’operazione – all’inizio dello spettacolo si proiettano delle immagini, molto belle e ben fatte tra l’altro, sul fondale; poi si svuota il palcoscenico, si “scontornano” i cantanti e li si inserisce in un secondo schermo col solo scopo di aggiungere uno sfondo; a questo punto non si poteva direttamente proiettare come all’inizio? –, ciò che più secca è l’utilizzo di questo linguaggio nel corso della narrazione teatrale: la dimensione virtuale vorrebbe dare sfogo ai moti interni dei personaggi ma le argomentazioni, anche illustrate sul programma di sala, sono assolutamente pretestuose, quando non banali o scontate; essa finisce allora coll’essere un segno estetico completamente sconnesso dal contesto, una trovata invadente, un’esibizione vuota di un mezzo poi nemmeno così stupefacente – siamo lontani anni luce dai risultati, per intenderci, di D-Wok –. E così si ruba spazio a uno spettacolo che in realtà, pur nel solco della tradizione, comincia benissimo perché Cristian Taraborelli – che cura regia, scene e luci – fa sedere il coro nelle prime file della platea, avviando un gioco meta-teatrale discretamente suggestivo: il pubblico diventa parte integrante della messinscena, si lascia coinvolgere dagli applausi di regia, può godere in maniera diversa della bella prova dei Cori del Teatro Carlo Felice, istruiti dai maestri Francesco Aliberti e Gino Tanasini.
Molto apprezzato il versante musicale. Andriy Yurkevych, alla guida dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice, intavola una concertazione molto equilibrata, musicale, sempre in grado di sorreggere palcoscenico e dramma senza che l’uno soccomba all’esigenze dell’altro. Il cast, poi, è validissimo. Fabio Sartori è un Canio dagli acuti statuari, dal fraseggio misurato, umanamente convincente, capace di resistere a quegli eccessi veristi con cui si suole corredare la parte. Serena Gamberoni, nel finale, sottopone il proprio strumento a uno sforzo non indifferente – il vibrato che si accentua è campanello d’allarme –, però l’aria e il duetto sono cantati così bene – musicalità e raffinatezza espressiva sono cifre distintive di Gamberoni – da giustificare il cimento con l’oneroso ruolo di Nedda. Sebastian Catana ha dalla sua un vocione bello rotondo e pieno che da solo basta a conferire autorità al canto nel prologo e grettezza al personaggio di Tonio. Anche Marcello Rosiello, Silvio, può vantare bei mezzi vocali ma nel nobile tentativo di sfumare inciampa in qualche problemino d’emissione. Matteo Falcier, infine, veste i panni di Peppe con garbo ed eleganza. Completano correttamente il cast Luca Romano e Giampiero De Paoli (contadini).
Volo d’angelo su Sull’essere angeli perché chi scrive di balletto non capisce un’acca. La partitura di Filidei, che oltre all’orchestra impegna anche un flautista virtuoso come Mario Caroli ed è ben diretta da Yurkevych, è interessantissima per la fattura della scrittura musicale. Claudia Catarzi, ballerina, tiene bene il palcoscenico e su di esso sembra muoversi con armonia però, per mancanza di competenze, non riusciamo a spingerci oltre i commenti da serale di Amici. Regia, coreografie, scene, costumi e luci sono di Virgilio Sieni.
Applausi calorosissimi per tutti. Da non perdere il prossimo appuntamento con un titolo rarissimo: Bianca e Fernando di Bellini.