Il Barbiere torna a casa
di Roberta Pedrotti
Anche al Comunale di Bologna riprende l'attività operistica con la piena capienza di pubblico. Ed è grande festa per un Barbiere di Siviglia con qualche limite, ma forte delle prove smaglianti di Roberto De Candia e Marco Filippo Romano.
BOLOGNA, 21 ottobre 2021 - Innanzitutto, è una festa. Con Il barbiere di Siviglia il Comunale di Bologna apre la stagione lirica autunnale (prossimi titoli, Adriana Lecouvreur e La cenerentola) mentre il cartellone 2022 è già bell'e annunciato – e ghiotto – e, soprattutto, si torno alla piena capienza dopo oltre un anno e mezzo di aperture contingentate a singhiozzo. Numerosi, felici, vicini, vaccinati, dunque: i bolognesi festeggiano Rossini con autentici boati, finali e qualche esplosione a scena aperta. Bene così, festeggiamo, finalmente!
A guardare con un po' più di attenzione nello specifico dello spettacolo, poi, festeggeremo soprattutto Roberto De Candia, Figaro, e Marco Filippo Romano, Bartolo, due generazioni diverse, consolidate certezze e nuove leve che hanno ormai consolidato le promesse degli esordi. La voce del primo si è naturalmente inspessita e scurita nel tempo, d'altra parte son passati ventisette anni da quando, pressoché debuttante, lo ascoltammo per la prima volta su questo stesso palcoscenico, all'esordio in una parte, il Poeta del Turco in Italia, che gli ha poi portato fortuna. Lo scorrere del tempo ha portato colore e vigore, ma non ha scalfito la verve, la confidenza con Rossini, l'elasticità del canto, il gusto fresco del colore e della parola: il suo Figaro sicuro e sornione è una sicurezza che si rinnova e si riscopre sempre volentieri. Reduce dalle recite dello stesso titolo alla Scala, Romano raccoglie con onore il testimone della miglior scuola buffa italiana: sillabati ben sgranati, voce sempre timbrata e ben appoggiata, bel colore, accento sapido. È “basso parlante” per stile, ma canta, eccome, senza compromessi musicali, gigionate, vezzi e lazzi: recita con spirito, resta nel personaggio e sa accattivarsi il pubblico. Non è un caso che la sua aria risulti fra le più applaudite.
La classe dell'esperienza si fa valere pure nel Basilio di Andrea Concetti e dispiace che nella Calunnia alcune sue intenzioni non trovino risposta nell'orchestra e il finale dell'aria non sortisca l'effetto sperato. In effetti, al concertatore Piergiorgio Morandi non si può negare il mestiere, evidente in alcuni passaggi ben torniti (bene l'orchestra del Comunale, così come il coro preparato da Gea Garatti Ansini), semmai quel che difetta è lo spirito della commedia rossiniana, di un crescendo che deve inebriare e non crescere meccanico, difetta il controllo il rapporto con le voci e con il palco, non esente da squilibri e sfasature.
Ne escono penalizzati i due amorosi, che non sempre riescono a farsi sentire fra colleghi e orchestra. Certo, fa piacere che al tenore César Cortés si conservi “Cessa di più resistere”, per il semplice fatto che non ha senso storico tagliarlo: l'idea che sia drammaturgicamente superfluo è storicamente superata, trattandosi della canonica grande aria pre finale presente nella maggior parte delle opere dell'epoca; il fatto che sia difficile non è un alibi, ché allora dovremmo considerare di poter tagliare “Pensa alla patria” nell'Italiana in Algeri o fin la pazzia di Lucia, in assenza di una primadonna all'altezza. “Cessa di più resistere”, per difficile che sia, è nella parte del conte di Almaviva, chi lo interpreta dovrebbe cantarla, si spera al meglio. Nel nostro caso, pur non essendo un virtuoso autorevole Cortés parte anche bene, sgrana perfino “di tanta crudeltà” senza travisare il segno scritto, tuttavia la cabaletta è superiore alle sue possibilità e molte battute sono semplificate o taciute con prudenza. Paola Leguizamòn ha coloratura diseguale, talora molto efficace, talaltra un po' arruffata; la voce acquista smalto salendo, sebbene qualche acuto sfogato risulti un po' tagliente. Taglienti sono anche gli acuti di Laura Cherici (Berta) nella stretta del finale primo, dove il passare del tempo più si fa sentire, mentre nell'aria e nel resto dell'opera prevale la caratterista scafata padrona della parte e della scena. Nicolò Ceriani è un ottimo Fiorello con l'unico difetto, se tale si può definire, di sovrastare il suo padrone; Gianluca Monti è un autorevole Ufficiale, Paolo Faroni Ambrogio.
Poco da dire resta sullo spettacolo firmato da Federico Grazzini. Nato nella sua prima versione per OperaLombardia con un'ambientazione nell'Ohio della metà del secolo scorso che sollecitava molte frizzanti trovate comiche, per Bologna era stato ricollocato in un generico Ottocento. Tutto diventa più ordinario, innocuo, anche un po' prevedibile. Pazienza, il pubblico si diverte, finalmente libero di riempire il teatro in ogni ordine di posti, gli artisti ritrovano finalmente il loro pubblico. Torniamo a casa: tanto basterebbe per spellarci le mani.