Atmosfere poco belliniane
di Giuseppe Guggino
Il Massimo di Palermo propone Il pirata di Bellini fra alti e bassi per la parte musicale. Dimenticabile la parte visiva.
Palermo, 15 e 19 ottobre 2021 - Portare in scena Il pirata – titolo di capitale importanza nel catalogo belliniano, oltre che di bellezza pari alla difficoltà negli spartiti per i due protagonisti – è di per sé elemento di merito per il teatro disposto ad assumersi il rischio. Nonostante la pandemia abbia ne abbia determinato il rinvio il Massimo di Palermo ha voluto comunque confermare il rischio, puntando su Celso Albelo nel ruolo eponimo, uno dei non molti tenori oggi in grado di rendere in maniera plausibile la scrittura di Gualtiero; e alla prima il tenore canario non delude le aspettative affrontando con buona sicurezza e ragguardevole tenuta tutte le asperità di una tessitura al limite dell’impossibile, pur rinunciando ai da capo delle sue due cabalette e risolvendo talvolta a detrimento dell’intelligibilità del testo le frasi gravitanti sul registro più alto del pentagramma con un’emissione nasaleggiante, che però rende bene il senso di una linea di canto più unica che peculiare, qual certamente doveva risultare nella prima metà dell’ottocento la vocalità di Giovan Battista Rubini su cui è modellata l’invenzione belliniana. Analogo impegno e scrupolo nel secondo cast contraddistingue Giorgio Misseri che pare essere più che consapevole dell’ideale a cui voler tendere, oltre che stilisticamente inappuntabile nel gusto di alcune variazioni che lo spingono addirittura ad un fa acuto non scritto nella conclusione di “Per te di vane lagrime”; sebbene non nel Pirata, Bellini scrisse dei fa per Rubini sia in Bianca e Fernando sia nei Puritani, cosa che rende l’interpolazione in qualche modo giustificabile, tuttavia il problema del giovane tenore palermitano sta nello scollamento che talvolta si percepisce tra intenzioni e risultati, nonché nella disomogeneità di emissione fra i vari registri che rendono la pur volenterosa prova non sempre appagante.
Analoghe perplessità sorgono sulle due Imogene scritturate ossia Roberta Mantegna e Marta Torbidoni. La prima è artista dotata di carisma in scena, capace di un buon fraseggio e dotata agilità abbastanza precise, ma l’ampiezza del mezzo risulta piuttosto limitata così come il timbro poco rotondo mal collimano l’ideale belliniano in una prova specie nei cantabili sì professionale ma complessivamente deludente. Per converso lo strumento della Torbidoni sembra essere molto più adeguato al cimento, se non fosse che la voce tende a schiacciarsi in acuto perdendo se non il controllo quantomeno il fascino che indubitabilmente si percepisce nel registro centrale; anche la presenza scenica risulta perfettibile dovendosi affrontare il canto d’agilità – specie nel tragico – con quella compostezza e immobilità che forse nel buffo potrebbe anche non essere così indispensabile.
Buoni infine i due Ernesto, antagonisti del pirata Gualtiero, ossia il baldanzoso e duttile Vittorio Prato e il ben più vilain Francesco Vultaggio, entrambi efficaci ma parimenti troppo inclini alle agilità aspirate.
Se non delude il Coro preparato da Ciro Visco, nonostante visiere e mascherine ne attenuino l’incisività, il comparto comprimariale risulta invece un po’ troppo rinunciatario dal Solitario poco a fuoco di Giovanni Battista Parodi, fino all’Itulbo di Motoharu Takei, passando per Natalia Gavrilan impegnata quale Adele.
Sullo spettacolo del tandem Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi c’è poco da dire: una prua stilizzata a mo’ di tetraedro in perenne rotazione, trovarobato e costumi d’accatto, qualche pretesa politica sinistroide nell’identificare coi pirati i migranti dei nostri giorni, leggibile più fra le note di regia che non nelle allusioni portuali delle brutte strutture tralicciate presenti della scena iniziale, e una grande distanza fra l’altezza delle pretese e la modestia della realizzazione, non colmata da quella cosa che si chiama mestiere. Il senso del mestiere non manca invece a Francesco Lanzillotta la cui bacchetta però è fin troppo alterna; se la sinfonia scivola via sbrigativamente fra qualche clangore e variazioni agogiche interne non sempre coerenti, nei duetti la concertazione della buona Orchestra del Massimo ha qualche colpo d’ala, salvo poi paludarsi in meccanici accompagnamenti d’archi o inciampare nella compattezza di insieme in qualche stretta un po’ troppo precipitosa. Come di prammatica l’opera di chiude senza il cosiddetto finalino che seguirebbe la scena della follia di Imogene: si esce quindi da teatro con il flauto di Giulio Francesconi e il corno inglese di Cristina Monticoli ancora nelle orecchie, che non è affatto male! Peccato per tutto ciò che ha funzionato meno.