Vuoti e virtù
di Sergio Albertini
Una splendida produzione del capolavoro di Gluck a Cagliari viene purtroppo accolta da un pubblico sparuto.
Cagliari, 12 novembre 2021 - "Houston! Abbiamo un problema!” Mi veniva in mente questa frase, forse fin troppo abusata, allo spegnersi delle luci al Teatro Lirico di Cagliari prima dell'inizio della rappresentazione della nuova produzione di Orfeo ed Euridice di Gluck. La platea appariva sconsolatamente vuota, tolti una manciata di irriducibili e gli addetti ai lavori. Neppure un anno e mezzo fa, questa stessa sala era piena. Piena. Si interruppero le repliche di Pagliacci, iniziò il lungo inverno (ma anche estate e primavera) dei teatri. Chiusi. Tentativi d'ogni sorta, streaming soprattutto. Poi, le prime, parziali riaperture. Il successo del Don Pasquale nella sala grande dapprima, sia pur col pubblico ad occupare le due logge con posti distanziati, poi di Le Villi e La vedova allegra all'aperto lasciavano ben sperare. E invece, qualcosa non torna. Nonostante l'ottimo sforzo produttivo, la riapertura al centro per cento della sala e di tutti i foyer, nel rispetto delle norme igienico-sanitarie previste, il pubblico – almeno alla prima – non ha risposto (saltata anche la terza recita per l'allerta maltempo). Il Lirico è ben presente sui social, è attento al pubblico giovane, ha messo a disposizione cento biglietti in prima loggia per gli studenti universitari alla recita del 20 novembre e cento per gli studenti del Conservatorio per la recita del 16 novembre al prezzo promozionale di 2 euro. E a tutte le scuole della Sardegna di ogni ordine e grado si può assistere a una recita operistica a 7 euro. Basterà per “costruire” un nuovo pubblico ?
Peggio per chi non è venuto/a. Perché questo “Orfeo ed Euridice” è davvero una produzione preziosa. A partire dalla scelta del direttore, al suo debutto cagliaritano, quel George Petrou che dovrebbe già fare notizia di per sé. se ci non fosse una stampa (locale in primis, ma anche nazionale) che presta attenzione alle 'cose' della lirica solo se c'è l'irriducibile Nucci in Rigoletto, Domingo baritono (o quasi) in Simon Boccanegra, un cameo della Zanicchi in un'opera donizettiana (!), o il regista egotico dalle trovate ipertrofiche. Qui c'è uno dei più interessanti direttori del barocco (trovo la sua incisione del Giulio Cesare di Handel di assoluto riferimento) e dell'età tra classicismo e primo romanticismo (da ascoltare il suo Beethoven). Ma quale Orfeo gluckiano, per il Lirico cagliaritano e Petrou ? Le offerte, si sa, sono varie, e spesso anche molto intriganti. La prima versione, di Vienna, del 1762 affidata (allora) al castrato Gaetano Guadagni (ed ora in repertorio di numerosi falsettisti). La versione di Parma, del 1769, con la parte di Orfeo trasposta in alto, sempre per castrato, con modifiche alle arie del secondo e terzo atto, e la semplificazione della scrittura orchestrale per facilitare gli strumentisti locali, considerati qualitativamente inferiori all'orchestra viennese. La versione di Londra (1770), con cori, arie, ornamentazioni e recitativi aggiunti di Johann Christian Bach e Pietro Alessandro Guglielmi. Nel 1773, sempre a Londra, la versione parmigiana trascritta per soprano. Nel 1774 a Parigi Gluck cura una versione in francese con la parte di Orfeo trascritta per haute-contre. Una versione napoletana del 1773 vide tagliate le danze finali, il duetto tra Euridice e Orfeo e l'aria in minore sostituiti con elaborate pagine di coloratura (si presume che l'autore fosse Diego Naselli, aristocratico dilettante), con l'aria “Che puro ciel” trasportata da do maggiore a re maggiore. E poi, ecco a Weimar, nel 1854, Liszt dirigere una versione che sostituisce l'originale ouverture di Gluck con un proprio poema sinfonico. Fino alla versione di David Alagna per il proprio fratello, il tenore Roberto: riprende la versione parigina del 1774, sopprime i balletti, rielabora alcuni passaggi strumentali, Eurydice muore in un incidente stradale e non morsa da un serpente, e durante i funerali Orphée immagina solamente di veder rivivere la sua sposa.
Un'ampia scelta, che anche discograficamente ha aggiunto variazioni e inserzioni, come l'edizione Solti che inserisce per la Horne l'aria di Bertoni “Addio, addio, o miei sospiri” (già presente nella versione francese per haute-contre e nella revisione di Berlioz per Pauline Viardot ome “L'espoir renait dans mon ame”) o quella di Mackerras del 1966, con abbellimenti vocali di mano dello stesso direttore.
E a Cagliari ? Petrou e il Lirico hanno optato per l'edizione Ricordi 1889, che parte dalla 'versione Berlioz' del 1859: una versione che riadatta la versione parigina (che nell'edizione Ricordi viene tradotta in italiano), modificando l'orchestrazione e adeguandola agli sviluppi tecnici che il secolo XIX aveva apportato agli strumenti, col contributo anche di Camille Saint-Saens e affidando la parte di Orfeo a un mezzosoprano. L'edizione Ricordi utilizza anche elementi della versione viennese, recuperando anche musica trascurata da Berlioz. Una scelta che ben si adatta alle esigenze acustiche dei 'nuovi' teatri come il Lirico.
Non c'è fossa. L'orchestra suona praticamente davanti al palcoscenico. Orchestrali senza mascherina, fiati non più nelle 'gabbie' di plexigas, un leggio per parte. Petrou ha un gesto intenso, forte, muscolare. Ma il risultato tirato fuori dall'orchestra del Lirico è di estrema delicatezza, di diafana compattezza, non copre le voci. Sceglie tempi serrati, Petrou: “Che puro ciel” e “Che farò senza Euridice” - le due arie più note – hanno un dinamismo, una tensione tersa che però non ne annulla la cantabilità classica. Precisa, netta e incisiva la 'Danza delle furie' dove gli archi del Lirico hanno mantenuto una pulizia ed una compattezza di gran rilievo.
La regia e i costumi erano a firma di Nicola Berloffa, altro debuttante al teatro cagliaritano. Gli abiti riconducevano la dimensione visiva ad un elegante settecento: i coristi e le coriste (con mascherina), spesso posti dietro ad un velario – e ben guidati da Giovanni Andreoli – assistevano, in una dimensione quasi da tragedia greca – immobili; mentre all'inizio del primo atto, Berloffa ottiene da loro gesti rapidi, all'unisono, del loro volto, delle loro mani, che esprimono appieno la partecipazione al dolore per la scomparsa di Euridice. Spettacolo per certi versi minimale, ma assolutamente essenziale; immerso nel buio e nel nero della prima parte, nel bianco luminoso della seconda. Piani orizzontali scorrevoli immettono in scena un prato di fiori bianchi assieme all'ingresso di Amore, il letto di Euridice tra stele e obelischi spezzati (simbolo di vite troncate dalla morte); l'improvviso accendersi dei fuochi del regno dei Morti, la discesa di un altare colmo di ceri luminosi, un coup de théatre dopo l'altro, semplici ma efficaci. La gestualità è anch'essa di impostazione classica, che ben si coniuga con le coreografie di Luigia Frattaroli, che nel lutto iniziale attorno al nero baldacchino funebre come nelle danze finali del terzo atto richiamano, nell'arcuarsi delle braccia, certe simmetrie canoviane, mentre nella danza delle Furie, un geometrico rapido inseguirsi che ricorda e rievoca la precisione di coreografie à la Balanchine. Le scene di Aurelio Colombo, spesso 'disegnate' in orizzontale dal calare di mezzi sipari, e le luci di Valerio Tiberi (bello il taglio caravaggesco sul coro in fondo al palcoscenico) erano in perfetta sintonia con il lavoro di Petrou e Berloffa.
Il giovane cast vedeva protagonista assoluta la brasiliana Victoria Pitts, un mezzosoprano dal timbro ambrato, che ha perfettamente incarnato – anche nella postura e nei gesti – un Orfeo dolente, disperato, combattuto. Una Euridice luminosa e particolarmente intensa, soprattutto nel duetto con Orfeo, era la cipriota Theodora Raftis (cui, forse, fa difetto ancora un certo impaccio scenico che andrà migliorato), mentre Silvia Frigato era un vivace Amore (con tanto di alucce dietro le spalle...).
Spettacolo perfetto in ogni suo aspetto. Non mi capita di scriverlo spesso.