Il “nuovo” Harding
di Lorenzo Cannistrà
Dopo la parentesi dedicata ad altri interessi di vita, un Daniel Harding in gran serata torna al Teatro alla Scala con un programma capace di far felice qualsiasi appassionato di musica classica: l’Ouvertüre dal Der Freischütz di Carl Maria von Weber e la Sinfonia n. 9 di Dvořák “Dal nuovo mondo”.
Lo ha promesso e lo ha fatto. Concluso l’anno (quasi) sabbatico dedicato alla sua passione per il volo e gli aerei, Daniel Harding è tornato a dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala, con cui ha collaborato più volte di quante ormai si possano ricordare. Lo ha fatto, presumiamo, rinnovato e rinsaldato nello spirito dopo aver realizzato un sogno che lo accompagna fin da quando era bambino. D’altronde Harding non è l’unico esempio di musicista in carriera prestato alle linee aeree. Senza scomodare l’illustre precedente di Karajan, e per restare nell’ambito di casa nostra, qualcuno ricorderà che anche il pianista Roberto Cominati (primo premio al concorso Busoni, ed. 1993) ha vissuto un simile “deragliamento” da una carriera pianistica peraltro avviata più che bene, facendo anch’egli per un periodo il pilota di linea. Ma per fortuna in Harding (così come in Cominati) mai il novello pilota è riuscito a spodestare l’affermato musicista; ed eccoci quindi qui seduti, in un Teatro alla Scala finalmente riaperto al pubblico, ancorchè contingentato, a gustare di nuovo il talento del direttore inglese.
Il programma è di quelli che fanno fare una piccola fregatina di mani, perché propone due ghiotti bocconi, ben noti al pubblico. Nessuna novità quindi, ma il “nuovo” che propone Harding è simbolicamente richiamato dalla Sinfonia n. 9 di Dvořák, la celeberrima “Dal nuovo mondo”, che reca con sé tutto un inedito carico di suggestioni e stimoli sonori legati alla nuova esperienza di vita e di lavoro del compositore boemo a New York. Ma anche l’Ouvertüre dal Der Freischütz, forse non meno celebre, richiama tutto il corredo di novità dirompenti per le quali l’opera di Weber è nota. Così come Dvořák cala le melodie e i ritmi dei nativi americani nell’impianto sinfonico di matrice ancora saldamente beethoveniana, così Weber non mette formalmente in crisi la tradizionale struttura “a numeri” del Singspiel (solo con l’Euryanthe lo schema verrà di fatto accantonato), ma nella sostanza abbandona l’archetipo del “bello ideale” per creare una musica insieme realistica e fantastica, densa di pathos (e talvolta di horror), incline al trascendente e alla compenetrazione con la natura. Un’opera, come disse lo stesso Weber, “arrivata troppo presto”, e la cui portata innovativa è non riassunta, ma evocata in nuce già in questa splendida ouverture. Balza poi alle orecchie un’affinità timbrica tra questi capolavori, rappresentata dall’importanza che i corni hanno in entrambe le partiture (soprattutto nell’incipit dell’ouverture e nei temi più famosi della Sinfonia).
Daniel Harding è tornato alla Scala in piena forma. Nel direttore inglese il background del fine concertatore, dell’artigiano di altissimo livello, convive felicemente con un temperamento appassionato e un’accesa fantasia. Il gesto di Harding è assai bello: in certi momenti ricorda quello di Carlos Kleiber, ma più sobrio e misurato (non che quello di Kleiber non lo fosse: semplicemente era geniale). Il movimento del direttore inglese ha il pregio di illustrare con chiarezza il messaggio musicale, che viene percepito prima dagli orchestrali e poi dal pubblico che ascolta il suono evocato da quel gesto.
L’Ouvertüre dal Der Freischütz viene inquadrata da Harding nel suo non essere una mera summa, un’elencazione pedissequa dei temi principali dell’opera, ma un riuscitissimo pezzo in cui convivono perfettamente l’infallibile istinto dell’uomo di teatro e la costruzione beethoveniana a temi contrapposti. Particolarmente riusciti il momento iniziale di evocazione della natura e la sospensione punteggiata da fragorosi accordi a piena orchestra, prima della gioiosa coda.
Molto “beethoveniana” anche l’esecuzione della Sinfonia di Dvořák, in cui i temi principali, che sembrano germinare l’uno dall’altro, sono esposti con un’energia che rimanda all’ineluttabilità del destino. La misura classica che permea tutta l’interpretazione di Harding non va mai peraltro mai a scapito dei fantasmagorici colori orchestrali e degli effetti “cinematografici” che hanno reso giustamente famosa quest’opera. Sempre curatissimo il fraseggio: non vi è mai un inciso buttato lì a caso per stanchezza, ma uno sforzo di espressività e di chiarezza che ha tenuto sempre viva l’attenzione del pubblico.
Unico appunto della serata: proprio il pubblico. Ovvio che il fatto di vedere i palchi gremiti non può che essere salutato come una benedizione. Ma alcuni comportamenti, come lasciare cinguettare il cellulare (per di più durante una delle pause della celestiale coda del Largo), oppure far partire l’applauso quando il direttore è ancora raggelato nella posizione e nel silenzio che segue immediatamente l’ultimo accordo, sono decisamente intollerabili.