L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il coraggio di Mitsuko

di Lorenzo Cannistrà

Mitsuko Uchida torna ad esibirsi a Milano per la Società del Quartetto, unica tappa italiana del suo tour internazionale, ed è un appuntamento imperdibile per godere della sua arte raffinata e piena di sensibilità. Il programma proposto è intellettualmente stimolante: il Mozart della Fantasia K 475 e della Sonata K 570 intervallato da alcuni brani dalla raccolta Játékokdel compositore ungherese contemporaneo György Kurtág, e le visionarie Davidsbündlertänze di Schumann

MILANO, 26 aprile 2022 - È possibile, anzi probabile, che diversi lettori de L’ape musicale abbiano avuto tra le mani e gustato un delizioso libro intitolato Assolutamente musica (Einaudi, 2019) che raccoglie le conversazioni piuttosto informali avute in diversi periodi tra lo scrittore Murakami Haruki e il direttore d’orchestra Ozawa Seiji (nei testi viene rispettato l’uso giapponese di anteporre il cognome). La prima conversazione del libro, molto ampia, ruota intorno al Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra di Beethoven, e ad alcuni suoi solisti leggendari, come Gould o Serkin, sviscerandone le interpretazioni e discutendo di dettagli più o meno riusciti, o anche controversi. Quando si arriva a Mitsuko Uchida (anzi, Uchida Mitsuko), l’ammirazione di Ozawa diventa però incondizionato entusiasmo: “Che suono stupendo! Questa donna ha veramente un orecchio straordinario…..Sì, anche il Giappone ha prodotto una pianista di eccezionale bravura…..Che meraviglia! Mitsuko è una pianista sublime”, e via di questo passo. E nonostante un pizzico di comprensibile sciovinismo, non c’è da mettere in dubbio il genuino apprezzamento di un pezzo da novanta come Seiji Ozawa.

La verità è che ormai da molti anni, quando si parla del pianismo declinato al femminile, il pensiero corre subito a due figure di spicco quali Martha Argerich e Mitsuko Uchida. Curioso è il parallelismo, anche biografico, fra le due star: entrambe nate lontano dal cuore pulsante della grande musica europea, più o meno della medesima generazione (sette anni di differenza), grazie a genitori diplomatici di professione hanno avuto la possibilità di studiare a Vienna con grandi maestri (Uchida con Kempff, Argerich con Gulda e il di lui maestro, Bruno Seidlhofer). Entrambe si sono battute con successo nei concorsi internazionali e hanno subito intrapreso una carriera di successo, costantemente osannate dalla critica e dal pubblico. Ad oggi, nonostante l’età, ed onuste di gloria, continuano a suonare per i pubblici di tutto il mondo senza che si possano scorgere all’orizzonte lacrimevoli addii alle scene.

Ma dal punto di vista caratteriale ed artistico non potrebbero concepirsi pianiste più diverse: tanto vulcanica, istintiva e mercuriale la Argerich, quanto introspettiva, perfezionista ed apollinea la Uchida. Per la verità la pianista giapponese appartiene a quella ristretta cerchia di interpreti che rifiutano categoricamente di contaminare le proprie interpretazioni con dosi più o meno cospicue di ego. Alla maniera di un Pollini, per capirci, la Uchida resta sempre un passo indietro rispetto al testo e ai tasti, concentrandosi su un ideale sonoro la cui ricreazione è scopo di vita mai pienamente realizzato e oggetto di incessante ricerca. Questa caratteristica fa sì che non sia così facile capire cosa in lei sia davvero “tipico” e riconoscibile, proprio perché l’ideale sonoro si pone fuori da sé.

Alcune caratteristiche sono tuttavia percepibili e costanti nell’arte della Uchida: la chiarezza dell’articolazione, la volontà di illuminare i particolari più reconditi della partitura, unitamente ad una tensione costante nelle frasi musicali, in cui è facile scorgere un climax che ripiega quasi subitaneamente in una naturale chiusa. Si percepisce, nelle sue interpretazioni, quasi come un’ansia rattenuta, che però non compromette l’eleganza innata di cui questa grande donna è dotata.

Di tutto ciò si è potuto godere anche in questa serata milanese - in Conservatorio per la Società del Quartetto - unica tappa italiana del suo tour.

Mitsuko Uchida avanza sul palco con la sua personalissima eleganza: alta, magra, scarpette argentate, mantellina di tulle celeste e inchino da ginnasta. L’assenza di ego (e al contrario lapresenza di un certo coraggio) è evidente anche nella scelta del programma, che nella prima parte alterna Mozart e Kurtág, messi insieme forse non solo per ragioni musicali, ma anche perché si tratta di due grandi amori della sua vita artistica. L’accostamento è per la verità estremamente suggestivo: sembra di essere in una pinacoteca, quando ci si diverte a passare da un settore all’altro, da un periodo storico all’altro. La scelta dei pezzi mozartiani non mi sembra però casuale. La Fantasia K 475 è un pezzo pregno di enigmi, specialmente nella lunga, sibillina coda, mentre le profonde, ma emotivamente distanti, ottave dell’incipit intonano un monito universale che si lega felicemente all’arco spaziale di Play with Infinity, il pezzo d’apertura. La Sonata K 570 è ancora più ingannevole nella sua apparente semplicità e disimpegno. In realtà è un pezzo estremamente difficile da realizzare decentemente, per via di quella tessitura trasparente, quasi diafana che la caratterizza, soprattutto nel primo movimento. E Uchida, che già nella Fantasiaha sudato come un’equilibrista, nella sonata fa veramente i miracoli, suonando letteralmente con l’uovo sotto i tasti. Sa, la Uchida, che non è necessario qui l’impeto richiesto in altri lavori come la Dürnitz, o la K 309, o la stessa K 333 (che pur presenta un legame genetico non indifferente con la K 570). La pianista nipponica rinuncia anche alla consueta sgranatura delle quartine di sedicesimi, trasformate consapevolmente in un indistinto frullo d’ali che si posa su staccati brevissimi ma non secchi. Il capolavoro, e forse il momento più alto della serata, viene con il secondo movimento: stessa difficoltà trascendentale di dosaggio del suono, e il risultato di far piangere, senza piangere. La Uchida, al termine del sardonico terzo movimento (anch’esso legato ad un filo tenue, nonostante qualche nota le sia scivolata), stoppa l’applauso del pubblico e attacca un altro pezzo di Kurtág, il cui titolo non è dato sapere perché non è indicato in programma. Poco male, in questo modo simbolicamente l’alternanza tra classico e contemporaneo si chiude ancor più felicemente.

Nella seconda parte la Uchida rinuncia a dare una soddisfazione più, per così dire, epidermica al proprio pubblico. Le Davidsbündlertänze sono un’opera straordinaria, ricca di poesia come poche altre di Schumann, con momenti anche di grandissimo pathos, ma con un’articolazione interna inadatta a scatenare l’applauso liberatorio del pubblico (il penultimo pezzo è addirittura una sorta di falso finale, seguito dal sublime e cullante Nicht schnell). Nei momenti di maggior calore e drammaticità i quasi 74 anni della pianista si sono sentiti tutti, ma la Uchida ha tenuto coraggiosamente testa alle asperità tecniche del primo Schumann (qualche difficoltà nella cavalcata del Wild und lustig, ma che precisione nei salti del Lebhaft!). Soprattutto la nostra pianista non è mai venuta meno alla sua missione di restituire l’affetto, l’intimità o, quando richiesto, la grandiosità di questo visionario esperimento del genio di Zwickau, e ciò sin dal perentorio attacco con la micro-citazione del tema di Clara.

Il bis, richiesto a gran voce, è ancora Mozart, l’Andante dalla Sonata K 330. Inutile spendere altre inefficaci parole per descrivere la bellezza dell’interpretazione, se non per dire che non dimenticherò facilmente quelle tre note ribattute iniziali, venute su dal nulla come il miracolo della creazione.

Per concludere, mi sembra appropriato riportare un altro stralcio delle conversazioni tra Murakami Haruki e Ozawa Seiji, che mi sembra l’ultimo e più definitivo commento a questo mirabile recital: “MURAKAMI: Anche quelli che si mostrano molto inventivi nelle loro interpretazioni, di solito lo fanno senza capire le necessità dell’opera, senza coglierne la sostanza. OZAWA: Uchida Mitsuko, in questo senso, ha molto coraggio. E anche Martha Argerich. MURAKAMI: Pensa che le donne abbiano più coraggio degli uomini? OZAWA: Sì, le donne sono più determinate degli uomini.”. E se lo dice Seiji…..

Grazie, Mitsuko.


 

 

 
 
 

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