Suonare il sublime
di Antonino Trotta
All’Unione Musicale di Torino continua l’integrale delle sonate di Beethoven affidato al pianismo di Pietro De Maria: incanta, tra le altre, la sonata in mi minore op. 90.
Torino, 27 aprile 2022 – Come scalare l’Everest o mettere piede sulla Luna, suonare l’integrale delle sonate di Beethoven è un’impresa destinata a pochissimi: ad essa spesso si dedica una vita, e in effetti una vita di studio ci va per preparare, metabolizzare e rifinire quelle preziosissime gemme musicali, alcune delle quali titaniche per spessore e dimensioni. Del resto affrontare l’integrale non significa suonare trentadue pezzi uno dietro all’altro, bensì collegare trentadue anelli di una stessa catena, tracciare un percorso, a volte tutt’altro che lineare, in cui ogni tappa ha un’idea chiara circa origine e direzione, in cui ogni sonata si legge con consapevolezza del prima e del dopo. Ecco allora che ancor prima della tecnica impeccabile, della contezza di stile, del gusto e della classe dell’interprete, del ciclo beethoveniano – giunto al quarto appuntamento – che l’Unione Musicale di Torino ha affidato al pianismo di Pietro De Maria colpisce la maniera in cui la prospettiva dell’integrale sembra polarizzare la lettura delle sonate. Lettura che in qualche modo reinventa le distanze, temporali, tra una sonata e l’altra, specie qui dove nell’impaginato, come al solito, si avvicendano capitoli della giovinezza e della maturità senza alcun banale ordine cronologico.
Si comincia con la sonata n. 19 in sol minore op. 49 n.1, sonata che, pur essendo successiva alle esplosioni creative della Patetica o della Tempesta, presenta nella forma ancora un’eco evidente degli antichi modelli di Mozart e Haydn. De Maria ne offre un’esecuzione però assai romantica, più interessata alla moderna teatralità dell’idee melodiche che al quadrato pulsare della scrittura. Così l’Andante iniziale, ad esempio, appare segnato da fraseggi lunghissimi tutti indirizzati, a suon di diminuendo, verso pianissimi impalpabili che accentuano la nobile mestizia del tema, quasi atto a rievocare le ombre della Patetica. Nemmeno il Rondò si consuma frettolosamente in un eccesso di vivacità: qui sono le sezioni in minore ad aver più peso nell’economia del movimento, impreziosite così come sono da dinamiche e agogiche ad ampio raggio che ne innervano il tessuto drammatico. Un discorso abbastanza simile potrebbe essere ripetuto anche per la sonata n.9 in mi maggiore op. 14 no. 1, evidenziando però nel pianismo di De Maria anche la straordinaria capacità coloristica realizzata con gli agguerriti mezzi che la tecnica gli mette a disposizione: il susseguirsi di staccati e legati, l’alternarsi di accenti ora nervosi ora garbati, il tocco che sa essere prima rotondo e poi acuminato, regalano a questa sonata giovanile una tavolozza di tinte estremamente variegata che indirettamente tempera il pubblico all’ascolto delle ultime sonate.
Tocca quindi alla più celebre tra le sonate di Beethoven, la sonata quasi una fantasia in mi bemolle maggiore op. 27 n. 2, condannata, al di là della facilità di scrittura che la rende accessibili a tutti, dal sottotitolo affibbiatole di “Al chiaro di luna” che inevitabilmente ispira un estenuante e fuorviante sentimentalismo di maniera. Non è questo il caso e più che perdersi in divagazioni e contemplazione notturne De Maria evoca, con l’Adagio sostenuto, atmosfere enigmatiche e irrequiete, esasperate da aperture nell’incedere ritmico che innescano in chi ascolta una sensazione di tensione e angoscia. Angoscia che non nasce solo dai rubati ma abita nella perizia con cui ogni nota del tema, più che suonata, è somministrata alle nostre orecchie: pur in un range dinamico che non si spinge mai oltre il piano, tutte le note della nuda litania appaiono plumbee, pesanti, come affondate nella tastiera, ciascuna col suo peso specifico, eppur tutte ugualmente intense, così da conferire al movimento un pathos sofferto e tagliente. Alla grazia settecentesca dell’Allegretto centrale segue infine impetuoso dilagare del Presto agitato conclusivo, tutto costruito sul violento contrasto tra i due temi: il primo, l’ingordo arpeggio in do diesis minore, incendia con una vampata di fuoco la tastiera; il secondo congela il pendolo del metronomo per perpetuare l’inquietudine della melodia – come nel primo movimento, scolpita nel sostrato scalpitante dell’accompagnamento –, approfondita in lungo e in largo cosicché, negli accordi corali che ne segnano la fine, il primo piano su una voce o su un’altra possa rinnovarla ad ogni ripetizione.
Il punto più alto della serata, però, si raggiunge con la sonata n. 27 in mi maggiore op. 90, eseguita nella seconda parte del concerto prima della sonata n. 28 in la maggiore op. 101. Pagina di magnifica fattura, lontanissima dalla grandiosità che caratterizzava il genio di Bonn in quel periodo – poco prima, in una pausa nel genere sonatistico, erano nate, ad esempio, la Settima e l’Ottava –, la sonata in mi maggiora op. 90 è uno dei primi capolavori in cui Beethoven di dimostra capace di cristallizzare, ponendolo nero su bianco, il sublime, l’ideale di una bellezza assoluta proiettata oltre percezioni banalmente positive o negative che poi si ritroverà spesso nelle ultime sonate. È un’osservazione del tutto personale, per carità, però ascoltando De Maria nel secondo movimento, Nicht zu geschwind und seht singbar vorzutragen, si ha come l’impressione di trovarsi sospesi in un iperuranio dove le emozioni umane non hanno contorni netti, in cui l’umore, il tono non è mai ben definito, eppur ci si ritrova completamente anestetizzati da una sensazione di serenità che in fin dei conti è definibile solo come estasi.
Tre bis, tre graditissime pagine di Rameau – Le Cyclopes, Le rappel des oiseaux e Les Sauvages – poste lì a ribadire la stoffa preziosa dell’interprete, chiudono la bellissima serata.