L'intelligenza di Otello
di Roberta Pedrotti
Il colpo d'occhio spettacolare di un Teatro Regio affollato all'inverosimile saluta le prove eccezionali per intelligenza musicale e drammatica, per senso dello stile, gusto, tecnica e teatralità di Gregory Kunde, l'Otello per eccellenza dei giorni nostri, e Gianandrea Noseda sul podio. Meno interessante il resto del cast e pollice verso per 'allestimento scenico.
TORINO, 26 ottobre 2014 - L'Otello perfetto sarà esistito, forse, solo nei sogni di Verdi, che non fu mai pienamente soddisfatto nemmeno di Francesco Tamagno. Si può supporre che la sua insoddisfazione fosse la stessa che lo spingeva a provare e riprovare il duetto fra Macbeth e la Lady fino alle ultime ore prima della prima: un perfezionismo estremo teso a un ideale irraggiungibile di dramma - shakespeariano, in questi casi - in musica. La parte è chiaramente pensata per le qualità del primo interprete, che aveva voce araldica nobile e squillante, ma è altrettanto chiaro che Verdi ambiva a un obbiettivo più alto di cucire al meglio un ruolo sulle caratteristiche di un cantante.
Gregory Kunde potrà non essere l'Otello perfetto semplicemente perché il cantante perfetto non esiste e ancor meno potrà mai esistere una lettura definitiva del Moro, con buona pace dei fan di questo o quello fra i grandi interpreti. Gregory Kunde è però uno dei più grandi Otello di sempre, la più perfetta incarnazione della sensibilità e del gusto moderno per il ruolo. Ascoltandolo appare evidente ciò che la partitura già esprime con chiarezza: la tessitura non è quella di un tenore drammatico baritonale, il registro grave è più volte sollecitato, ma mai in competizione con la piena orchestra, mai con un'insistenza spavalda e con quell'incisività drammatica che invece si notano nelle impennate acute (e ricordiamo che Verdi scrisse per Otello il Do che negò a Manrico). Kunde nasce come tenore contraltino e anche con la seconda vita artistica degli ultimi anni lo smalto in acuto non è venuto meno: è sicuro e perentorio ogniqualvolta Verdi lo richieda scalando il pentagramma, tanto che è difficile ricordare un tenore che abbia saputo affrontare le ascese di Otello con simile souplesse, soprattutto se sposata a una tale finezza musicale. Le radici belcantistiche sono sempre chiare in Verdi, che sfrutta tutte le possibilità della voce, dinamiche, appoggiature, trilli, in senso drammatico e Kunde trova quell'ampiezza nel fraseggio che gli permette di essere perfettamente credibile nelle ultime opere del Maestro, rispettandone con moderna sensibilità tutte le finezze di scrittura. E non teme gli affondi al grave perché la tecnica è buona, nessun suono è mai falso o forzato, tutto è fondato sulla parola e su un'espressività acuta e profonda.
Se il cantante perfettamente duttile e tonante in tutto lo spettro di un'ampia estensione sarà il sogno impossibile di qualche vociomane, il sogno di Verdi sarà stato più quello di trovare cervello e musicalità quali rendessero piena giustizia al suo Moro. Sogno, quest'ultimo che Kunde realizza infiammando giustamente una platea affollatissima, traboccante di appassionati giunti da ogni dove per godere dell'Otello per eccellenza dei nostri giorni. Perfetto per la sua intelligenza, con la quale ha plasmato la voce.
Lo sostiene e lo accompagna la bellissima concertazione di Gianandrea Noseda, che a capo di un'orchestra in forma smagliante, seconda a nessuna fra i teatri d'opera italiani, ci regala una lettura in cui la tensione è calibrata nel minimo dettaglio, nella cura certosina di un suono che trova sempre un suo specifico colore in rapporto al dramma, vivido e trasparente nella chiarezza degli intrecci, dei disegni armonici, della drammaturgia delle singole voci umane e strumentali. Noseda non indulge, come in altre occasioni, su netti chiaroscuri e tensioni spasmodiche, ma dosa fremiti sottili, dilatazioni, suoni morbidi, quasi soffocati, o viceversa lucenti come lame o come stelle, tutto sempre perfettamente fluido e coerente, tanto che i momenti topici che vorremmo citare, come l'ingresso di Otello nel IV atto, rischierebbero di far torto all'unitarietà preziosa dell'intero discorso.
Detto però dell'efficacia complessiva del coro, della bontà del Cassio di Salvatore Cordella e del Roderigo di Luca Casalin, i motivi d'esultanza si spengono rapidamente: Kunde e Noseda valgono soli la recita, ma si muovono spesso nel deserto. Anzi, in una sorta di labirintica trincea, almeno così si presume l'abbia concepita il regista Walter Sutcliffe suggerendola allo scenografo Saverio Santoliquido.
Peccato che il risultato sia quello, forse influenzato dalla magnifica pasticceria locale, di una colossale torre di biscotti savoiardi, di un immane candido tiramisù che non ha davvero nulla d'inquietante e claustrofobico, anzi muove al sorriso quando si scopre ospitare pergolati mobili con glicini fioriti o un lussuoso letto a baldacchino. Anche i costumi, a firma di Elena Cicorella, sono fra i più brutti e incoerenti che ci sia stato dato vedere, con il pessimo gusto di esibire Kunde a torso nudo (è pur sempre un uomo sulla sessantina con un po' di legittima pancetta) coperto da una maglia a effetto nudo con finti tatuaggi. Desdemona, in gonna pantalone arancione e papavero rosso fra i capelli, è una figlia dei fiori, Emilia fa rabbrividire per la scelta di quella casacca azzurra con colletto di pizzo all'arrivo dell'ambasciata veneziana.
Il problema, però, non è tanto estetico, quanto di regia vera e propria: Sutcliffe debutta in Italia forte di esperienze come assistente di David McVicar, ma dal maestro sembra non aver appreso nulla, visto l'impaccio costante nei movimenti del coro (goffo nella tempesta iniziale, in cui sembra spostarsi calcolando sempre male i tempi) o il ricorso a coreografie risibili di Hervé Chaussard, che pensa bene di animare l'azione facendo correre avanti indietro, con qualche movimento inconsulto, un gruppo di ballerini. La recitazione è lasciata all'inventiva dei singoli, con palesi difetti di tecnica e buon senso: un cantante della mole di Ambrogio Maestri ha trovato evidente difficoltà nell'alzare il tallone sul capo di Otello nel finale terzo, perché non evitarglielo? Salvo, poi, precisi intenti ironici, un regista professionista avrebbe dovuto proibire a Erika Grimaldi di levare di continuo le braccia al cielo con gesto da filodrammatica d'altri tempi.
E così via, gli esempi sarebbero molti per un'unica constatazione: il debutto italiano e in Otello di Walter Sutcliffe è stato un completo fallimento.
Il citato Ambrogio Maestri disporrebbe di uno strumento vocale privilegiato per grana e possanza. Al contrario di Kunde non lo gestisce con i dovuti gusto e maestria: spiace ascoltare, per esempio, il solfeggio impreciso e la linea vocale spianata (dove sono le appoggiature di “Beva, beva”? Dove i trilli?) soprattutto nel Brindisi, spiacciono troppe emissioni sguaiate, per di più in una lettura che si sente esser stata comunque preparata con cura, ma non con classe, soprattutto nei recitativi.
Erika Grimaldi ha voce di natura un po' spigolosa, agretta, ma non sarebbe questo il problema, se, soprattutto quando la temperatura drammatica s'innalza, non mostrasse il fianco di un canto troppo fragile, povero nel legato, costretto a gonfiare le gote anche con effetti veristici là dove le mancano una più ampia cavata e, soprattutto, la saldezza d'emissione e la finezza musicale per compensarla. Il terzo atto la vede decisamente in difficoltà e si fa apprezzare, infine, principalmente nell'Ave Maria.
Di Samantha Korbey, Emilia, poco o nulla si può dire perché nei concertati era semplicemente inudibile e il quartetto del secondo atto si è mutato inesorabilmente in terzetto. Seung Pil Choi è un saldo Lodovico, Emilio Marcucci Montano e Lorenzo Battagion l'araldo.
Alla fine, comunque, vivaci apprezzamenti trascinati dall'entusiasmo per Kunde e Noseda, assortimento artistico perfetto, ragion d'essere e motore ultimo di questo Otello e del suo successo, nonostante tutto.