L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Senza necessità

di Mario Tedeschi Turco

Jordi Savall alla testa del Concert des Nations chiude il Settembre dell'Accademia filarmonica di Verona, ma il suo Schubert non è all'altezza dei risultati conseguiti nel repertorio antico e barocco.

VERONA, 3 ottobre 2022 - Si è conclusa con il concerto di Jordi Savall alla testa del Concert des Nations il trentunesimo festival internazionale di musica «Il settembre dell’Accademia», con una serata interamente dedicata ai due capolavori di Schubert, l’Incompiuta e la Grande. Il progetto schubertiano, ha spiegato Savall al termine dell’esibizione, era in realtà previsto per l’anno 2020, ma le contingenze pandemiche hanno differito le esibizioni dell’ensemble in questa stagione, mentre lo stesso complesso è già impegnato in una «Accademia Mendelssohn», tesa ugualmente a proporre il sinfonismo ottocentesco secondo i principi HIP e con la formula nota del Concert, vale a dire con membri a rotazione per il 50% (a sommarsi ai collaboratori storici del Maestro catalano), con presenza obbligata di giovani. L’obiettivo, ha dichiarato ancora Savall, è quello di giungere a una compagine formata per metà esatta da strumentiste donne, in modo tale da raggiungere il doppio obiettivo di garantire un’autentica parità di genere e un’effettiva possibilità di carriera ai ragazzi che si affacciano al mondo del concertismo internazionale.

Si tratta, come ognuno vede, di intenti lodevoli sia per lungimiranza professionale che per impegno civile, da approvare e sostenere senz’altro, sperando anzi che molti altri complessi si aggiungano a questo tentativo di rivitalizzare la cultura musicale. Sugli esiti artistici del singolo concerto, tuttavia, spiace davvero non poter replicare analogo entusiasmo: affrontare due colossi del sinfonismo classico-romantico come Ottava e Nona di Schubert presuppone infatti una tecnica direttoriale ed esecutiva di prima grandezza, sia per la forma oggettiva dei testi sia per il confronto possibile con le miriadi di altre interpretazioni che si sono succedute nei secoli.

Cos’aveva questo Schubert di necessario? Non il suono in sé, piatto e uniforme negli archi, con i violoncelli schiacciati dal peso dei violini primi e secondi da una parte, dei tre contrabbassi dall’altra, fino ad essere quasi inudibili; non nei fiati, soprattutto, che hanno mostrato enormi problemi di fonazione e talora di intonazione (con l’eccezione ben vero dei flauti, e dei corni quanto meno nell’attacco della Grande), così che la voce orchestrale si è presentata morchiosa, priva di quello sbalzo timbrico garantito dal fitto dialogo intessuto nella scrittura, e pure della maestosità di fanfara eroica ugualmente evocata nella Nona. Non l’interpretazione di Savall, il cui gesto rigido e (volutamente?) inespressivo, che sostanzialmente ha segnato il tempo a due mani senza anticipo su arsi e tesi, ha garantito tutto il repertorio ‘storicamente informato’ di scarso o nullo vibrato su arcate che abusavano di detachés e martelé, di agogiche molto spedite ma grigiamente uniformi, quasi macchinistiche, di dinamiche a terrazze che, se abbiamo ampiamente apprezzato nelle sue incisioni di musica antica, con l’800 romantico e ancor più precisamente viennese - considerando Schubert in quanto araldo di una linea di “secessione” contra i sinfonisti mediotedeschi e la parallela musica a programma -, ci pare poco o nulla abbia a che fare: non con l’anelito all’infinito dell’Ottava, con la sua epifania tragica sul ponte di transizione, non con la wehmut del suo secondo movimento, non con l’utopia di palingenesi epica post-beethoveniana della Nona, e nemmeno con il suo sogno struggente di valzer del terzo movimento, in cui tra l’altro, nella monotonia del tactus complessivo, ampiamente perduti sono stati non solo le intermittenze coloristiche ma anche la dialettica modulante maggiore/minore che ne destabilizza drammaticamente il senso.

Terminata la sequenza di rilievi in negativo, pensiamo che, in fondo, questa musica resisterebbe anche a esecuzioni non particolarmente analitiche, o estrose, o partecipate. Sempre che la tecnica sia impeccabile, ben inteso, la qual cosa con ogni evidenza non è stata: che sia limite degli strumenti antichi in ampi organici orchestrali è possibile, anche se tante volte con un Gardiner, per dirne uno, tale limite mai si è appalesato. Più probabile dunque una qualche menda di ordine pratico, di competenza degli strumentisti; oppure chissà, anche una serata storta. Il rispetto per Jordi Savall resta massimo, quale solista, quale storico e musicologo, quale generosissimo maestro e forza catalizzatrice di intraprese che sono e resteranno esemplari. Ma per questa serata decisamente preferiamo non ricordarlo.


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