L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’arte sublime di Pletnev

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita il recital di Mikhail Pletnev, interprete straordinario e fantasioso, che presenta come un programma un viaggio nella musica di Brahms e Dvořàk.

ROMA, 12 dicembre 2022 – Aprendo il bel programma di sala (le cui note si devono alla competente firma di D. Gangale), il pubblico si sarà chiesto perché, per fare un esempio, Mikhail Pletnev ha scelto di eseguire il n. 6 dell’op. 118 di Brahms nel primo tempo e il n. 3, sempre dalla medesima raccolta, nel secondo. La risposta sta in un gioco di equilibri, in un viaggio sonoro in un’epoca, il tardo Romanticismo, grazie a due voci vicine e amiche: Johannes Brahms e Antonin Dvořàk. Nel far ciò, Pletnev esegue, senza soluzione di continuità, seguendo una logica estetica originalissima, composizioni dell’uno e dell’altro, alternandole a suo piacimento, in un programma che segue una logica vicina a quella dei grandi interpreti del passato. Avrebbe potuto, ad esempio, eseguire tutto Brahms nel primo tempo e Dvořàk nel secondo; ma avrebbe così sacrificato quell’effetto sublime derivato dall’esecuzione alternata, paratattica dei due artisti, che si apprezzarono molto in vita e furono umanamente vicini, pur appartenendo a due realtà differenti, unite sotto la corona dell’Impero Asburgico.

Lo stile di Pletnev, a tutti noto, è quello di un pianista che ha nella rilassatezza del tocco, nell’intimità del gesto, nel gusto atmosferico dei colori le sue qualità migliori; mentre suona sembra quasi che lo faccia per ognuno di noi, singolarmente, in una stanza privata, senza pretese e orpelli retorici. L’assenza di una retorica magniloquente non vuol dire, però, assenza di grandezza tout court, che nel caso di Pletnev – e di molti baciati dalle Muse – sta nella massima naturalezza del gesto. La timbrica è curatissima, l’uso del pedale parco e poco sforzato: l’effetto è quello di un’esecuzione quasi a mezza voce, che riesce però a non togliere nessun effetto sentimentale ai pezzi eseguiti. Lo testimonia già la Rapsodia op. 79 n. 1 in si minore di Brahms, dalla quale Pletnev tira fuori effetti chiaroscurali sublimi, dovuti al contrasto fra il carattere stürmer dei passaggi più agitati ed il cullante tema, malinconico, su cui l’esecutore indugia, scandendolo, quasi, tasto per tasto. Che il fil rouge accomunante il programma dell’intera serata sia, probabilmente, da individuare in un certo qual carattere malinconico dei due autori, anzi, di un’epoca intera (la seconda metà dell’800), lo testimonia il pezzo successivo, il Minuetto op. 28 n. 1 in la bemolle maggiore di Dvořàk, una sorta di valzer dal procedere dolce, intimistico, chopiniano, un pezzo solo apparentemente facile, che la sapienza esecutiva di Pletnev fa brillare di colori soffusi. L’intenzione di Pletnev è, ora, quella di scavare la malinconia puramente slava e lo fa con l’Eclogue dai Sei pezzi op. 52 di Dvořàk; la scelta estetica è evidente: dopo la drammaticità di Brahms, Dvořàk alleggerisce (almeno all’apparenza) tale tensione. Pletnev, in tal senso, scava il carattere ‘etnico’ del suono dell’Allegro, un pezzo anche di bravura, che valorizza un virtuosismo mai esagerato, per concludere con il Tempo di Marcia, dove la fanno ancora da padrone i contrasti fra l’incedere marziale dell’apertura e il carattere più lirico della parte centrale. È tempo di tornare a Brahms: ecco il n. 6 dei Sei pezzi per pianoforte op. 118. Quasi spettrale l’accordo spezzato in cui si indulge all’inizio dell’Intermezzo, atmosfera che si mantiene sospesa, tetra, tranne che nella parte centrale, dove un incedere più volitivo smuove l’aria lugubre: qui Pletnev gioca con i ritmi, rallenta, accelera. Il primo tempo si chiude all’insegna di Dvořàk, stemperando ancora la tempra sonora della sequenza dei pezzi scelti. Un’antologia di Humoresques (op. 101, nn. 7, 6 e 4), chiuse dall’Eclogue op. 103 n. 3, non può che essere una scelta azzeccata. Famosa è l’Humoresque B 138, col suo tema scanzonato, gentilmente galoppante, che si scioglie, nella parte centrale, in una serie di accordi che riecheggiano i temi blues e spiritual con cui Dvořàk era venuto a contatto in America. Sonorità ‘americane’ possiede, inconfondibilmente, la n. 4, mentre la n. 6 è più slava nell’ethos. L’Eclogue è un bozzetto di irresistibile semplicità.

Il secondo tempo si apre all’insegna di Brahms, con i Tre Intermezzi op. 117. Ancora, il Brahms di Pletnev è intenso, ma mai eccessivo, con sfumature intime date dal sapiente uso dei colori. Una lettura commovente è quella del n. 1, dove il tenerissimo tema viene quasi distillato dal tocco dell’esecutore, che si abbandona ai colori più cupi nella parte centrale; gli arpeggi del n. 2 scorrono con acquatica limpidezza, incorniciando un’intensa malinconia; il n. 3, infine, che si apre con passaggi glaciali, si evolve in passaggi più tesi, fino a ritornare all’idea iniziale. Limpida tensione, malinconia, dolcezza dei temi è la cifra di questi pezzi di perfetta fattura. Con l’alternanza di cui già si è detto, Pletnev passa a due pezzi di Dvořàk, il bozzetto dell’Eclogue B 103 e il Moderato in la maggiore B 116, dove si nota la propensione di Pletnev a scontornare momenti vivaci, coreutici. Prima del finale, tutto dedicato a Dvořàk, Pletnev esegue la celebre Ballata n. 3 op. 118 di Brahms: ancora una lettura intimistica, giocata sugli indugi, le riprese, la pulizia dell’esecuzione degli accordi iniziali, intensi, lo scavare nell’emotività del tema centrale. Il concerto si chiude con i Quadri poetici op. 85 di Dvořàk (nn. 3, 6, 9, 10, 11, 12 e 13), in cui Pletnev dà prova della sua impressionante sensibilità bozzettistica. Indimenticabili le visioni di Al vecchio castello, i passaggi lisztiani del Baccanale e lo ieratico incedere di Alla montagna sacra. Il pubblico sommerge Pletnev di applausi caldissimi; tutti in piedi, gli spettatori lo omaggiano con una standing ovation. Col suo fare rilassato, Pletnev dona, a mo’ di bis, un’esecuzione indimenticabile del celeberrimo Notturno op. 9 n. 2 di Fryderyk Chopin, personalissima per scelte estetiche: rimane impresso, sopra tutto, il trillo che sfuma in rallentando per generare la cadenza finale, qualcosa di indescrivibile per cristallinità del tocco.


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