Britten e Šostakóvič, gemelli diversi
di Alberto Ponti
Il grande repertorio del Novecento è ancora protagonista nel secondo appuntamento diretto dall’esaltante bacchetta di James Conlon alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai
TORINO, 15 dicembre 2022 - Che Benjamin Britten (1913-1976) sia annoverato tra i massimi operisti del Novecento lo conferma la fortuna di molti suoi titoli sui principali palcoscenici del mondo. Meno eseguito è invece il repertorio sinfonico, nonostante anche in questo ambito non siano pochi i capolavori. Nel suo secondo concerto alla testa dell’OSN Rai, mercoledì 15 dicembre, James Conlon apre la serata con la Sinfonia da Requiem op. 20, un’opera che l’autore inglese compose nel 1940. Più storie si intrecciano in modo involontario nel dar vita alla partitura: una commissione del Governo giapponese per celebrare i 2000 anni della dinastia imperiale, la perdita dei genitori e il desiderio di onorarne la memoria, le cupe notizie del primo anno di guerra. Ne esce un pezzo sui generis e decisamente originale, dove il termine ‘sinfonia’ va inteso in linea assai labile, ma, pur nella concisione di una ventina di minuti di musica, di sublime ispirazione melodica, magistrale condotta armonica e istintivo senso dell’orchestrazione, tutte caratteristiche che denotano la realizzazione artistica del genio e segnano il culmine della prima fase creativa di Britten. La direzione di Conlon è misurata nella sezione introduttiva Lacrymosa quando il tema principale emerge poco a poco con crescente intensità emotiva, e allo stesso modo rifugge dalla ricerca del facile effetto nel successivo Dies Irae, lontano da gesti teatrali gratuiti ma nondimeno efficace nel liberare l’apocalittica energia contenuta nella scrittura britteniana, irta di dissonanze e asperità e con gli strumenti spesso impiegati al limite delle possibilità espressive. La viva cura del fraseggio e del respiro spaziale, il perfetto bilanciamento di volumi sonori e timbri da parte di Conlon è evidente nel terzo tempo Requiem aeternam, in cui l’esigenza da parte dell’autore di raccontare il dolore lascia spazio a una delicata e carezzevole meditazione, sia pur venata da un’inquietudine mai del tutto sopita, destinata a estinguersi tra i pizzicati dei contrabbassi.
Dopo l’esecuzione la scorsa settimana della colossale Quarta, il programma prosegue con un’altra sinfonia di notevole impegno e dimensioni uscita dalla penna di Dmitrij Šostakóvič (1906-1975), la cui parabola esistenziale è sovrapponibile a quella di Britten, vivendo quasi gli stessi anni. La Decima, in mi minore op. 93, segna il ritorno del musicista russo alla grande forma orchestrale per eccellenza nel 1953, quasi un decennio dopo la Nona. Il vasto affresco si apre con un Moderato dalla stringente logica compositiva, dipanandosi in un percorso attraverso i più disparati stati d’animo, dal sinuoso e strisciante espandersi dell’idea iniziale fino alle autentiche esplosioni sonore dello sviluppo. La lettura del maestro americano è sicura, abile nella scansione ritmica e agogica anche nel breve Allegro in seconda posizione. In questo brano di elevato virtuosismo, perfetto meccanismo a orologeria intriso di beffardo sarcasmo che corre precipitando verso una chiusa fulminante molti hanno voluto vedere uno spietato ritratto di Stalin, schizzato a caldo subito dopo la sua scomparsa. In realtà l’impressione è di trovarsi di fronte a un tipico topos di Šostakóvič, quell’andamento caricaturale in apparenza un po’ sghembo ma in realtà calcolatissimo nell’effetto al quale, sotto una bacchetta del calibro di Conlon, viene innestata una reale carica di empatia in grado di coinvolgere totalmente l’ascoltatore nel dramma. Di alto livello è ancora una volta la performance delle prime parti, cui sono demandati lunghi e articolati passi del lavoro, come nel terzo movimento, Allegretto, dove più penetranti che mai sono lo squillo del corno, il ruvido graffio del violino, il fischio dell’ottavino. Profondità di visione, acuto intuito per la forma, attenzione al minimo dettaglio nel rispetto della partitura caratterizzano la lettura di James Conlon del finale, impegnativo per la natura bifronte, con il serioso Andante che cede il passo in modo repentino a un energico Allegro, probabilmente la pagina più ‘alla Prokof’ev’, nell’esposizione del tema portante, che Šostakovi
abbia scritto. Il tratto personale però non tarda ad emergere e conduce a una chiusa dove ancora una volta la sfolgorante perizia tecnica si coniuga all’enigmaticità del messaggio che costituisce uno dei fattori di fascino di questo compositore.
Successo calorosissimo e ripetuti ‘Bravo!’ all’indirizzo dei protagonisti da parte dei coraggiosi che hanno raggiunto l’auditorium ‘Toscanini’ mentre su Torino infuriava una discreta nevicata.