Mehta e Fidelio, Beethoven o Bruckner?
di Francesco Lora
Il “sommo pontefice” del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha inaugurato il nuovo auditorium con un concerto sinfonico e una mise en espace dell’opera beethoveniana. L’occasione è stata anche quella di presentare al pubblico italiano, come Leonore, l’impressionante Lise Davidsen, accanto a Klaus Florian Vogt, Tomasz Konieczny, Franz-Josef-Selig e Francesca Aspromonte.
FIRENZE, 22 dicembre 2021 e 2 gennaio 2022 – Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dispone ora non solo della grande sala teatrale, ma anche di un attiguo auditorium nel cui atrio spiccano reperti del vecchio Comunale: allungato di forma, assai scosceso, senza balconate, è fruibile anche per la rappresentazione di opere adatte a uno spazio non troppo vasto, e ha un’acustica così generosa da trasformare persino le voltate di pagina in un tuono. Ha due difetti. Il primo è la deliberata mancanza di un commisurato organo da concerto. Il secondo consiste nel nome impartitogli: ‘Sala Zubin Mehta’, là ove è buona maniera intitolare istituzioni e spazi solo a teste coronate in corso di regno o a personaggi eminenti già tornati al creatore. Si dica allora che Mehta è, a suo modo, sommo pontefice del MMF. Ha diretto in persona una doppia inaugurazione: quella sinfonica, il 21 dicembre alla presenza del Presidente della Repubblica, con replica l’indomani; e quella operistica, con quattro recite di Fidelio di Beethoven dal 23 dicembre al 2 gennaio. Nel concerto il suo ruolo è stato più quello dell’officiante pomposo che quello dell’interprete di genio. Significa che sotto la sua bacchetta la Sinfonia n. 7 di Beethoven ha proceduto invariabilmente sottotempo, turgida, con le frasi tutte titanicamente percosse e mai dinamicamente direzionate: Ludwig van Bruckner, insomma, come lo si ascoltava venti, quaranta, sessant’anni fa, e come si è reimparato a non farlo più, onde non adulterare il vero testo e la reale idea. Significa che la Messa di Gloria di Puccini è stata battuta anch’essa lenta e ponderosa, senza le evoluzioni agogiche e le sfumature d’impasto via via prescritte dall’autore: il direttore è parso limitarsi agli attacchi e tralasciare l’esegesi di quella partitura singolare, di quel librone che non voleva saperne di stare ben aperto sul leggio, come a tradire uno studio frettoloso. Significa infine che il Te Deum di Bruckner – questa volta il vero Bruckner, offerto solo il 22 dicembre – è stato al contrario risvegliato nell’occasione giusta, ricevendo da Mehta un’interpretazione compatta come il porfido e rilucente quanto l’oro, monumentale, universale, con l’Orchestra e il Coro del MMF in smagliante assetto da assalto armato e festa irripetibile. Oltre i complessi fiorentini, una squadra di voci soliste: per la Messa di Gloria, il tenore Benjamin Bernheim, insieme raffinato, comunicativo e fragrante, e il baritono Mattia Olivieri, in spiacevole serata ‘no’ quanto a tessitura acconcia, intonazione esatta e pronuncia del latino; per il Te Deum, a sua volta, il solido canto da Walhalla del soprano Elisabet Strid e del basso Franz-Josef Selig, morbidamente stemperato da Bernheim e dal mezzosoprano Marie-Claude Chappuis.
A proposito di Fidelio, era previsto un nuovo allestimento in piena regola, con regìa di Matthias Hartmann, scene di Volker Hintermeier, costumi di Sophie Leypold e luci di Valerio Tiberi. L’auditorium, però, attende ancora le ultime dotazioni tecniche, e il progetto iniziale è stato riconvertito, a cura delle stesse persone, in una letterale, tranquilla, didascalica mise en espace. Senza rischio di attentati drammaturgici, la musica è balzata in primissimo piano, né avrebbe potuto andare diversamente con un Mehta assai più motivato qui che nei precedenti concerti. Con gioia lo si è visto gettare solo fuggevolmente l’occhio su una partitura che egli conosce a menadito, e dilatare sì a dismisura i tempi, ma questa volta sfumando, alleggerendo, illustrando all’orchestra come respirare su arcate tanto ampie. L’occasione è stata anche quella, memorabile, di presentare al pubblico italiano, in un degno ruolo dopo i concerti di Milano e Napoli, una cantante che va spopolando in area mitteleuropea e statunitense: il soprano norvegese Lise Davidsen nella parte protagonistica di Leonore. Da un lato, ella si fa ammirare per la femminile naturalezza del timbro e la cordiale naturalezza del porgere; dall’altro, lascia stupefatti per la facilità di emissione, la continuità di registri e la generosità di risonanza: evoca a ogni frase la memoria di Kirsten Flagstad, Astrid Varnay e Birgit Nilsson, e dà insperato séguito a quella gloriosa genealogia di impressionanti voci scandinàve. Nel caso di lei come in quello delle altre prime parti nella compagnia, il modello canoro rimane nondimeno quello wagneriano; si intende dire che, nelle intenzioni di Beethoven, il calibro vocale e l’estrazione stilistica avrebbero dovuto non discostarsi molto da quelli di Mozart o Rossini, mentre a Firenze, come dappertutto, si è ascoltata una Leonore che sembra Isolde, un Florestan che sembra Lohengrin, un Don Pizarro che sembra Wotan e un Rocco che sembra Gurnemanz: più muscolare esibizione di potenza che sottile prontezza di modulazione. Ciò vale anche per il diafano e querulo Florestan di Klaus Florian Vogt, che ha replicato la prova milanese del 2014 con qualche nuova fibrosità. Né ciò è un male se i due bassi erano due campioni del mercato vocale germanico, quali Tomasz Konieczny, per un energico Pizarro, e il menzionato Selig, per un sontuoso Rocco. Luca Bernard, come Jaquino, e Birger Radde, come Don Fernando, non hanno mancato di correttezza, mentre Francesca Aspromonte non si è accontentata di passare da comprimaria: la sua Marzelline non pretende l’eroismo di Leonore ma ne condivide gli affetti con pari sincerità, e la linea vocale è calda, duttile, limpida, furba, tale da impartire ai madrelingua stessi una lezione di idioma tedesco in seno al canto.