Sotto il sole d’Abissinia
di Antonino Trotta
Il Teatro Municipale di Piacenza inaugura l’anno con Aroldo di Giuseppe Verdi: piace l’idea alla base dello spettacolo di Emilio Sala ed Edoardo Sanchi; eccelle il cast grazie alle prove maiuscole di Luciano Ganci, Roberta Mantegna e Vladimir Stoyanov.
Piacenza, 23 gennaio 2022 – Ad arroventare le aspre maglie dell’armatura d’Aroldo, stavolta, non è sol di Siria ardente ma quello d’Abissinia: nei teatri dell’Emilia virtuosissima, Aroldo di Giuseppe Verdi, occasione più unica che rara, abbandona il «il solito medioevo di cartapesta» per avventurarsi nell’Italia belligerante del Ventennio fascista, e non per darsi arie di finta modernità. Una piccola parentesi storica è d’uopo. Aroldo, rifacimento dello Stiffelio imbavagliato dai soliti problemi di censura, venne rappresentato per la prima volta il 16 agosto 1857, per inaugurare il Nuovo Teatro di Rimini, che per l’occasione s’era dotato di un grande sipario realizzato dal pittore bergamasco Francesco Coghetti; il teatro fu distrutto da un bombardamento nel 1943 e riaperto, dopo varie peripezie, solo nel 2018, come risultato dell’impegno civico e civile che lo srotolamento pubblico, nel 1995, del sipario del Coghetti, fortunosamente recuperato dal custode del teatro Aldo Martinini, aveva ispirato.
Ecco allora che la storia di Aroldo diviene, nell’ineccepibile rilettura di Emilio Sala ed Edoardo Sanchi, l’altro cordone intorno a cui intrecciare la storia stessa del Teatro riminese – oggi intitolato al compositore Amintore Galli –: Aroldo è reduce dalla guerra coloniale nell’Africa orientale; Egberto, padre della fedifraga Mina, un gerarca che impone i dettami del regime a scapito di dignità ed emancipazione; la tempesta del quarto atto si trasforma nei bombardamenti che distrussero il teatro e la comunità idilliaca presso cui Aroldo e Briano si rifugiano – in un quarto atto, rispetto a Stiffelio, composto ex-novo – in una colonia rurale tenuta insieme da baggianate tipo la storiuncola dell’aratro e della spada. Tutto fila liscio come l’olio perché tutto è logico, coerente storicamente e drammaturgicamente – con qualche modifica al libretto che segnaliamo solo per dovere di cronaca – e, pur decontestualizzato dal teatro natio, – in apertura, un’anziana Mina ci introduce alla narrazione sicché anche a Piacenza si capisce cosa sta per succedere – lo spettacolo – forte anche delle scene di Giulia Bruschi e delle proiezioni di Matteo Castiglioni, dei costumi di Raffaella Giraldi ed Elisa Serpilli, delle luci di Nevio Cavina – si segue con trasporto, specie quando sul palcoscenico grandeggiano motti osceni ancora in uso. Con trasporto sì, con emozione meno perché manca, va detto, un po’ il vero e proprio lavoro di regia, quella forza interna allo spettacolo capace, col materiale comunque validissimo a disposizione, di scavare i personaggi e approfondire dolori e conflitti, di curare i movimenti sul palcoscenico affinché da pose essi si traducano in linguaggio, di trasformare un’eccellente idea in eccellente teatro.
Non è un caso, infatti, che a brillare sia Luciano Ganci, Aroldo già Stiffelio in quello Stiffelio (Parma 2017). Al di là della magnificenza di un canto tutto squillo e saette, che da solo basterebbe alla promozione con lode, Ganci fraseggia con acume senza buttar via una singola virgola del testo. Testo che implode e esplode, ruggisce e sospira, vibra insomma nella costruzione di un personaggio che sul palcoscenico non ha rivali. Vocalmente Roberta Mantegna non è da meno: senza mai dimenticare le ragioni del Belcanto, ella viene a capo dell’infernale parte di Mina alternando momenti di toccante delicatezza a esplosioni di trascinante impeto drammatico. Come non citare, a tal proposito, la magnifica aria del secondo atto «Ah, dagli scanni eterei», cantata nel trionfo di una vocalità rigogliosa ed estremamente versatile. Vladimir Stoyanov è un Egberto dalla linea di canto nobile e solida, propriamente scolpita con fraseggio e accenti che mai fanno vacillare la sua autorità. Adriano Gramigni è un Briano dalla voce statuaria. Ben fanno anche Riccardo Rados e Giovanni Dragano, rispettivamente Godvino e Enrico. Buona la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, istruito dal maestro Corrado Casati. Alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, Manlio Benzi offre una concertazione pugnace e incalzante, conservando sempre quella tinta caliginosa e sulfurea che avvolge l'opera.
Applausi calorosi festeggiano tutti gli artisti.