La bohème al tempo della Bohème
di Alberto Ponti
Un meritato successo arride all’apertura della stagione 2022 del Regio. Un’opera del grande repertorio in un’interpretazione non scontata e originale, in cui, accanto alla prova generosa ma perfezionabile di giovani interpreti di talento, emerge la sicura direzione di Pier Giorgio Morandi
TORINO, 18 febbraio 2022 - A Torino sono ormai rimasti ben pochi e quasi centenari a ricordare il vecchio Teatro Regio prima dell’incendio del 1936. Eppure mettendo piede nella sinuosa sala molliniana, oltre mezzo secolo di strepitosa modernità, finalmente riaperta per l’inaugurazione della stagione 2022 dopo la chiusura imposta dal covid e dai lavori di sistemazione del palcoscenico, chi ha la giusta sensibilità d’animo può avvertire la silenziosa ma fortissima presenza del fantasma del teatro che fu dove, nel 1896, si ebbe la prima di un titolo come La bohème, destinato a diventare tra i più amati e rappresentati di sempre. L’opera pucciniana ha quindi una fondamentale valenza simbolica per il capoluogo piemontese che assurgeva in quel finale di secolo a snodo musicale di primaria importanza. Perché se è vero che nessun lavoro della grande generazione di operisti romantici (da Rossini a Donizetti, da Bellini a Verdi) vide la luce in terra subalpina, già quattro anni prima della Bohème qui era stata presentata in prima assoluta la Manon Lescaut dello stesso Puccini.
Quale migliore occasione allora per proporre in veste di augurio, in questo anno di rinascita all’arte musicale, una Bohème che richiami un periodo di splendore nella vita del teatro, con le scenografie ricalcate sugli storici bozzetti predisposti da Adolf Hohenstein per il memorabile esordio diretto da Arturo Toscanini?
Sfila davanti ai nostri occhi l’opera come dovette comparire sia agli spettatori del 1896 che a quelli collegati in streaming nel 2021 (il debutto di questo allestimento è avvenuto con l’edizione dell’anno scorso visibile solo online). L’effetto è di innegabile suggestione , niente effetti speciali e prospettive ridotte all’osso, forse un tantino naïf rispetto alle interpretazioni registiche più o meno libere ed estremizzate cui siamo oggi abituati soprattutto quando si ha a che fare con titoli molto noti. Il duo Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi mette sul tappeto una regia intelligente e intrigante con gli ottimi costumi di Nicoletta Ceccolini e le scene dipinte da Rinaldo Rinaldi. La presenza di oggetti in scena è minima in ciascuno dei quattro quadri, con l’unica ovvia eccezione del secondo con il suo rumoroso Cafe Momus. Una semplicità che aborrisce ogni ridondanza, in linea con l’esistenza squattrinata dei protagonisti, trova un ideale gioco di sponda con la scelta di un organico strumentale ristretto negli archi, con dieci violini primi e poi a scendere fino a soli quattro contrabbassi. La direzione di Pier Giorgio Morandi è attenta e scrupolosa, curata nel dettaglio e nel supporto del canto ma, quando è il momento, la lussureggiante orchestra tardoromantica di Puccini balza in primo piano grazie alla sensuale pienezza di timbri, all’indovinata messa a fuoco delle dinamiche da parte dei musicisti del Regio che sanno intendersi al volo. Sotto tale aspetto è esemplare la coordinazione raggiunta dalle molte forze in campo nel secondo quadro, il concitato episodio di Momus in cui il compositore pare ricordarsi del grand opéra e la massa di cantanti e attori assurge a un ruolo di primissimo piano. È sempre un piacere ascoltare il coro del teatro istruito da Andrea Secchi e, per le deliziose e perfette voci bianche (spesso un punto debole di molte produzioni), da Claudio Fenoglio.
Sul versante dei protagonisti il tenore Valentin Dytiuk (Rodolfo), trentenne ucraino, si distingue fin dall’esordio (‘Nei cieli bigi’) per una prestazione generosa, facilitato da un timbro possente ed eroico che risulta poco calibrato per le oasi di intima meditazione ma non sembra temer confronti negli scatti volitivi che non mancano nella sua parte. Resta l’impressione, nonostante l’impegno encomiabile, di una certa uniformità espressiva, ma nei passi più attesi si guadagna applausi sentiti e entusiasti.
La Mimì di Maritina Tampakopoulos non è priva di acerbità nel duetto con Rodolfo nel primo atto, la salita verso l’acuto, supportata da una sicura tecnica, è a volte sofferta ma nel terzo quadro il duetto con Marcello le offre la possibilità di mettere in luce a tutto tondo il suo personaggio con un fraseggio più mosso e sentito, gradevolmente variato e ricco di sfumature, al pari del drammatico finale, dove emergono buone e convincenti capacità attoriali.
Valentina Mastrangelo è una Musetta perfettibile nella presenza scenica, anche se poco aiutata, nel suo momento clou del secondo quadro, dalla grande folla sul palco del Regio che, se ha il vantaggio di portare vivacità all’insieme, ruba l’attenzione e sacrifica un poco il protagonismo del pendant femminile dell’allegra brigata di giovani. La linea del canto del giovane soprano è comunque tornita e briosa, e nell’epilogo in soffitta sa tener testa per intensità ed emozione al resto della compagnia.
Di ottimo livello è la prova del trio di amici: i ruoli baritonali di Marcello (Ilya Kutyukhin) e Schaunard (Jan Antem), cui si aggiunge il Colline del basso Riccardo Fassi che sa cogliere al volo l’occasione che Puccini serve su un piatto d’argento al personaggio e con ‘Vecchia zimarra’ suscita un ovazione calorosa e commossa.
Completano il cast le fugaci e corrette apparizioni del padrone di casa Benoît (Matteo Peirone), Parpignol (Sabino Gaita) e i due doganieri (Desaret Lika e Marco Tognozzi).
Teatro finalmente pieno, ed è già un successo e un auspicabile sintomo di ritorno alla normalità, per un’edizione della Bohème che ha il merito di offrire il fascino di uno spettacolo all’antica ma con stile, evitando di cadere nel bozzettismo musicale e registico grazie all’intelligenza di tutte le parti in causa.