Il fascino discreto di Rigoletto
di Irina Sorokina
La ripresa del fortunato allestimento firmato da Alessandro Camera per le scene e Arnaud Bernard per la regia ha il suo punto di forza in un ottimo cast guidato da Luca Micheletti, al debutto come Rigoletto, con Eleonora Bellocci, Gilda. Qualche perplessità per la direzione di Francesco Ommassini.
Verona, 27 febbraio 2022 - Esistono avvicinamenti strani, disse il sommo poeta Aleksandr Puškin. Nel nostro caso intendiamo il caso del Rigoletto verdiano, composto nel lontano 1851, un sempreverde che impone la sua presenza ovunque nel mondo. La memoria suggerisce almeno quattro allestimenti di Rigoletto visti negli ultimi due anni, a Parma e a Modena, entrambi all’aperto, e a Mosca e a Verona al chiuso, l’ultimo rappresentato per la prima volta nel lontano 2011, ripreso con successo cinque anni dopo, nel 2016 e di nuovo nell’anno in corso. Un classico, ormai, non nel senso banale della parola. Classico perché pressappoco perfetto.
Il Teatro Filarmonico di Verona ripropone una messa in scena molto riuscita firmata dal regista francese Arnaud Bernard, ripresa da Yamal das Irmich, e dallo scenografo italiano Alessandro Camera. Dopo il fresco Rigoletto moscovita, un vero putiferio con centinaia di comparse e danzatori in scena, realizzato in un’estetica vicina a quella di musical, si emette un respiro di sollievo, non perché si è nemici del teatro di regia, ma perché si è amici di armonia e buon senso, e queste due cose le troviamo nello “storico” allestimento veronese.
Lo vogliamo definire “modestamente affascinante” per un gran trionfo del buon gusto; Alessandro Camera aveva scelto come la fonte d’ispirazione la Mantova rinascimentale, città di Giulio Romano capace di purificare l’anima ogni volta che viene visitata. La scena fissa rappresenta una grande sala che potrebbe essere un teatro anatomico dal soffitto altissimo e le pareti con un’infinita quantità di scaffali pieni di libri. La galleria prevede due ponti mobili, un’efficace trovata dello scenografo, contributo alla vivacità dei movimenti scenici. Tutto dai colori sobri e segnato da un’impeccabile eleganza. Il secondo quadro mostra un palazzetto sempre ispirato dalle architetture rinascimentali, casa di Rigoletto che nasconde dentro una scala a chiocciola, simbolo della segregazione di Gilda condannata a muoversi su e giù dentro della struttura piccola e stretta. Nel secondo atto il Duca canta la sua aria circondato dai modelli degli edifici della città ideale, nel terzo la capanna del malaffare è ospitata da una barca assai suggestiva. In questi ambienti Bernard costruisce i dialoghi tra i personaggi e le scene di massa, quasi sempre ben funzionanti, a volte inclini alla violenza esagerata, come il trattamento della Contessa di Ceprano da parte del Duca o la presenza pietosa della povera figlia di Monterone quando viene trascinato in prigione. Ai cantanti è concessa molta libertà e gli artisti in questione se ne approfittano con efficacia.
All’inizio il Duca appare vestito simile a uno scienziato o un medico del Rinascimento, interessato ai corpi umani compresi quelli deformi; compie manipolazioni sulla gobba di Rigoletto seduto in una posa scomoda sul grande tavolo. Sarà l’oggetto delle esplorazioni del padrone? Non è chiaro come non è chiara la presenza di un giovanotto muscoloso di colore con una fascia attorno ai fianchi: anche lui suscita l’interesse dello “scienziato”? Le due idee suscitano curiosità, ma non prevedono sviluppo e testimoniano una paura del vuoto, visto che tutto avviene mentre suona il Preludio.
Un sorprendente giovane cast si esibisce sul palcoscenico del Filarmonico. Diciamo “sorprendente” perché si tratta non soltanto di voci di prim’ordine e delle capacità attoriali indiscusse, ma di un caso piuttosto raro di compatibilità perfetta dei cantanti-attori con i personaggi rappresentati.
A capo della compagnia il baritono Luca Micheletti, già riconosciuto attore e regista, già premio Ubu e Pirandello, titolare del premio per il miglior spettacolo musicale in Giappone come protagonista di Macbeth con il maestro Riccardo Muti sul podio. Abbiamo a che fare quindi con un Rigoletto piuttosto giovane, il che non succede tutti giorni, anzi, può anche non succedere mai. Conquista da subito Micheletti, un ottimo baritono, voce ben impostata e perfettamente misurata, piacevolmente virile e morbida, mai sopra le righe o sforzata, anche nelle pagine che espongono un cantante a questo rischio. “Pari siamo!” è un esempio di mezzi vocali saggiamente dosati, senza la puntatura, “Cortigiani” è cantato da manuale e pure “Sì, vendetta”, che dopo i due monologhi viene attesa con ansia e voglia di prolungare il piacere d’ascolto di questa bellissima voce. Insomma, la macchina da guerra. Abbiamo a che fare con un Rigoletto senza gobba e addirittura bello: una cosa bizzarra sicuramente, ma perché no? Il gobbo era senza gobba anche nel recentissimo Rigoletto nella capitale russa e in tante produzioni attuali si prendono delle libertà ben più ampie.
Al fianco di Micheletti e al debutto nel ruolo di Gilda, il giovane soprano Eleonora Bellocci, vista al Filarmonico in Dido and Aeneas, sorprendente pure lei. Ricordiamo con piacere la Gilda di Mihaela Marcu che l’aveva preceduta a Verona, cinque anni fa, ma qui abbiamo a che fare con una specie di fenomeno. Le cantanti giovani, belle e ben preparate si trovano ovunque ormai, tuttavia la Bellocci come Gilda si distingue grazie ad una perfetta credibilità nel ruolo affidatole, disegnando una fanciulla ingenua e leggermente nevrotica in piena esplosione puberale. Va al proprio destino simile ad una farfalla che si avvicina al fuoco ed è molto significativa la frase “ma pur m’adora” che intona nel modo particolarmente espressivo nel dialogo col padre all’inizio del terzo atto. E poi la voce che non si dimentica, dolce si, sufficientemente morbida si, ma con una sfumatura d’acciaio, instancabile e resistente. "Caro nome" è cantato con una grande sicurezza, che non viene impedita dalla velocità più elevata; l’intonazione è perfetta e le colorature impeccabili, mentre in "Tutte le feste al tempio" il giovane soprano dà una lezione di canto pulito: dalla prima nota all’ultima sfoggia emissione morbida, cantabile carezzevole, parola nitida, acuti e colorature irreprensibili. La seconda macchina da guerra.
Accanto a Eleonora Bellocci, Ivan Magrì nei panni del Duca di Mantova, fresco della tournée omanita, è la terza macchina da guerra, detto sempre nel senso lodevole. Scava in profondità nel personaggio, disegna un Duca di Mantova molto portato a cambiare maschera, da sovrano violento a studente sdolcinato e ad “animale” dagli istinti primitivi. Aitante e ardente sia nella recitazione sia nel canto, Magrì affronta la parte con grinta, mancando però di morbidezza e di dolcezza e giocando poco sui chiaroscuri.
Ottimo Sparafucile di Gianluca Buratto, capace quasi di ammaliare grazie alla voce profonda, morbida e ben sonora e a un accento perfetto; risulta pure un bravissimo attore che scolpisce un personaggio tutt’altro che banale. Maddalena è interpretata dal mezzosoprano russo Anastasia Boldyreva, sinuosa, sensuale e maliziosa; meno convincente è la voce, piuttosto anonima e poco calda e vellutata.
La ripresa veronese vanta una presenza di lusso, Agostina Smimmero, nel piccolo ma significativo ruolo di Giovanna, di cui dà un ritratto che rimane scolpito nella memoria, pur avendo a disposizione solo decine di secondi. Porta bene la maschera di una custode bonaria, ma consegna senza pietà la fanciulla a lei affidata nelle mani del seduttore. La cantante napoletana sa usare bene non soltanto la sua voce eccezionale per colore e volume, ma anche l’andatura, il gesto e il sorriso.
Efficaci tutti i comprimari, Nicolò Ceriani – Marullo, Matteo Borsa – Filippo Adami, il Conte di Ceprano – Alessandro Abis, Francesca Maionchi - la Contessa di Ceprano, Nicolò Rigano, Cecilia Rizzetto – un paggio della duchessa. Merita una grande lode il coro preparato da Ulisse Trabacchin, un vero ensemble di artisti che agisce e canta in una perfetta sintonia.
Deludente a tratti la direzione di Francesco Ommassini che dall’inizio adotta le velocità più elevate del solito: a volte si tratta di autentiche galoppate. I tempi furiosi portano all’appiattimento del tessuto musicale, a sonorità banali e a volte ad attacchi non precisi. Di queste scelte soffrono soprattutto i pezzi che aprono l’opera; in seguito, si ripristina un certo equilibrio. Un’esecuzione accettabile, ma senza la ricchezza dei colori e soprattutto in una quasi totale mancanza dei respiri e delle sospensioni.
Alla fine, un successo strepitoso, pienamente meritato; il pubblico quasi in delirio esprime ai cantanti l’ammirazione e l’entusiasmo.