L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Turandot o la catarsi

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ripete l’esperienza straordinaria dell’Aida del 2015 e porta in scena, in forma di concerto, Turandot di Giacomo Puccini, all’interno di un progetto di incisione per Warner Classics che vede coro e orchestra dell’Accademia diretti da Antonio Pappano. Nel cast due stelle del panorama lirico attuale: Jonas Kaufmann e Sondra Radvanovsky, nei ruoli di Calaf e Turandot.

ROMA, 3 marzo 2022 – Serate come quella in cui Antonio Pappano ha diretto Turandot di Giacomo Puccini hanno del magico. Sono eventi abilmente preparati, fin nei minimi particolari. Un cast eccellente, diretto da uno straordinario interprete; una registrazione che uscirà per una prestigiosa etichetta, un’unica serata a pendant di tale registrazione, in cui il pubblico può gustare in anteprima quello che poi ascolterà in CD. Insomma, un’operazione studiata fin nei minimi particolari. Tutti eravamo elettrizzati all’idea di assistere alla Turandot diretta da Pappano, ma nessuno si sarebbe aspettato – penso – di assistere a una serata che definire catartica sarebbe forse riduttivo. Sì, proprio la catarsi aristotelica, quel sentimento che si può avere la fortuna di provare in teatro, quando si verifichino certe condizioni. Non v’è dubbio che il pubblico che gremiva la sala Santa Cecilia ha provato (chissà, forse alcuni per la prima volta in vita loro) ciò che Aristotele intendeva per catarsi: un’emozione che permea tutti, una vibrazione che cresce, si fa atmosfera condivisa dal pubblico tutto, per esplodere in applausi che sono liberazioni più che attestazioni di consenso.

L’artefice di tutto ciò è primariamente Antonio Pappano, che spagina Turandot in maniera strepitosa – per la prima volta davanti a un pubblico. Energia, raffinatezza nei passaggi più lirici, cantabilità, tensione: tutto è vivo nelle mani di Pappano e l’orchestra si galvanizza, tanto da suonare magnificamente. Il direttore è attentissimo a tutto: dal minimo guizzo strumentale alle scene più gigantesche, come lo ieratico ingresso dell’imperatore Altoum o il finale III, dove la tensione si scioglie progressivamente in passaggi di grande effetto. Nel cast degli interpreti figurano ben altri due debutti, proprio quelli dei ruoli principali: Calaf e Turandot. Sondra Radvanovsky lascia del tutto esterrefatti, interpretando una statuaria Turandot. Ciò che lascia senza fiato è non solo la sua potenza vocale, che ha riempito la sala fin dalla sua prima apparizione, ma il controllo che la Radvanovsky possiede del mezzo vocale; controllo che le consente di aumentare o diminuire la potenza vocale, sfumare, irraggiare la voce, proiettare e svettare, soprattutto nei momenti più algidi. Infatti, al ruolo di Turandot ben si adatta un canto ieratico, imperioso, almeno fino al III atto, quando l’interprete dovrebbe mostrare quell’umanità repressa e celata nel ricordo dello stupro dell’antenata. Proprio questo fa la Radvanovsky: diventa progressivamente ‘umana’ solo nel duetto finale, dove imperla un fraseggio dolcissimo, nell’istante in cui svela che il nome dello straniero è ‘amore’. La Turandot imperiosa, glaciale, la Radvanovsky l’ha espressa in un’esecuzione mozzafiato di «In questa Reggia, or son mill’anni e mille», in acuti taglienti come spade, che s’impennano durante la scena degli enigmi. Jonas Kaufmann offre una lettura vocale intensa e brunita del personaggio di Calaf. Certamente Kaufmann si distingue per una performance solida durante tutto il corso della serata; tuttavia, vanno segnalati passaggi più brillanti di altri e, soprattutto, momenti in cui si immerge nel ruolo meglio di altri, quando non riesce a svettare sopra l’orchestra. C’è anche da dire che la potenza con cui Pappano slancia l’orchestra in alcuni momenti e il fatto che la stessa non stia nella buca orchestrale, ma l’interprete vi sia immerso dentro, fanno sì che il cantante possa essere quasi soverchiato da tanta abbondanza di suono. In ogni caso, il Calaf di Kaufmann regala una performance apprezzabile. Due momenti si lasciano apprezzare in particolare: il celeberrimo «Nessun dorma!», che termina in un si naturale florido e ben udibile, e il lungo duetto del III atto con Turandot; insomma, per Kaufmann è particolarmente felice proprio l’ultimo atto, dove l’intesa con la Radvanovsky, eccellente in tutta la serata, arriva a momenti sublimi. Val bene segnalare che il finale scelto da Pappano è la prima versione di quello scritto da Alfano, senza i pesanti tagli di Toscanini: la musica scorre coesa, uniforme, e i due interpreti possono delibare l’intensità dell’espressione emotiva della linea cantata. Ermonela Jaho canta un’ottima Liù. Dotata di una voce intensamente vibrata, la Jaho è capace di filati e acuti chiarissimi, che rendono indimenticabile l’esecuzione della sua aria di morte: «Tu che di gel sei cinta». Qui la Jaho canta quasi a fil di voce, inanellando una serie di acuti centrati, a fior di labbra, che rendono eterea, quasi allucinata la lettura della struggente aria. Non si dimentichi, inoltre, la dolcissima esecuzione di «Signore, ascolta!», dove l’interprete ricorre ancora al suo repertorio di delicate variazioni d’intensità, che colorano la resa dell’aria. Statuario il Timur di Michele Pertusi, che vanta un mezzo vocale invidiabile per bellezza timbrica e potenza d’emissione; commuove il momento in cui canta la morte della sua amata schiava Liù, dove riesce a trovare accenti di ineguagliabile tristezza. Florido (persino troppo, forse, per il ruolo) l’Altoum di Leonardo Cortellazzi, che scolpisce le poche ma indimenticabili frasi dell’anziano imperatore. Eccellenti Pang, Pong e Ping, rispettivamente cantati da Gregory Bonfatti, Siyabonga Maqungo e Mattia Olivieri. In particolare, Olivieri si distingue per fraseggio e bellezza timbrica del mezzo vocale, intensamente scuro eppur duttile – val bene citare almeno il suo «Ho una casa nell’Honan». Michael Mofidian canta il ruolo del Mandarino, mentre Francesco Toma, Valentina Iannotta e Rakhsa Ramezani Melami, tutti e tre membri del coro dell’Accademia, sono rispettivamente il principe di Persia, la prima e la seconda ancella. Se c’è un altro vero protagonista della serata, quello è il coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: assieme all’orchestra, sotto le mani di Pappano, il coro si staglia titanico in più di un passaggio (indimenticabili le apparizioni di Altoum). Non è, comunque, solo la potenza, la precisione, la pulizia del canto delle varie compagini del coro a lasciare esterrefatti, quanto pure la connessione profonda e autentica con i vari passaggi della partitura in cui è chiamato a intervenire, dalle atmosfere più sfumate ai momenti di maggiore ieraticità. Dunque, una serata straordinaria, che rimarrà nella mente di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di assistervi.


 

 

 
 
 

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