L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La clessidra di Massenet

di Francesco Lora

Thaïs al Teatro alla Scala consiste soprattutto nella direzione di Lorenzo Viotti, memore e non impari del padre Marcello, mentre non altrettanta coscienza v’è nel nuovo allestimento con regìa di Olivier Py. La compagnia di canto, attesa da sfide notevoli, vede in prima fila Marina Rebeka, Lucas Meachem e Giovanni Sala.

MILANO, 19 febbraio 2022 – Una partitura di fascinoso eclettismo, nella quale convivono la pulita cantabilità del Gluck parigino, l’antica e severa monodia religiosa in canto piano e scale esotizzate tramite l’aggiustamento di mezzi gradi. Un libretto, poi, basato su un soggetto a clessidra, tanto avvincente quanto sarcastico: il santo monaco eremita del deserto, Athanaël, riesce a convertire la lussuriosa Thaïs, ma a costo d’invertire i rispettivi destini, con la donna che mortifica la carne e muore in santità, mentre egli scopre i sensi e si macera nella brama fisica di lei. Eccola, appunto, Thaïs, il capolavoro operistico di Jules Massenet cui si vorrebbe assistere ogni giorno, e che invece è un titolo raro, prezioso, proposto di rado, da godere non come lo svelto caffè di tutte le mattine, ma come il sublime tè millesimato dei giorni di festa. Il Teatro alla Scala lo ha allestito per sei recite, dal 10 febbraio al 2 marzo, e ne ha rinnovato l’incanto anche interpretativo.

Il merito è soprattutto del concertatore, Lorenzo Viotti, per il quale Thaïs è un fatto di famiglia. Il compianto padre Marcello adorava quest’opera e al Malibràn di Venezia, per il Teatro la Fenice, ne aveva data vent’anni fa una lettura appassionata, col superbo concorso di Eva Mei, Michele Pertusi e Pier Luigi Pizzi: uno spettacolo che getta la propria ombra anche sull’ascolto, la visione e l’analisi di oggi. Di Viotti in Viotti, a cambiare è il contesto, dal quale le differenze: Marcello lavorava allora in un’istituzione dal profilo nazionale, con maestranze di caratura tecnica onesta ma non mirabolante; Lorenzo lavora oggi su scala globale e gode di complessi di nuova generazione, sempre più versatili, ferrati e recettivi. La sua direzione narra per atmosfere ricercate, nell’incedere a passo ampio e arcano, nel soffondere i timbri in cipria e tramonti, insomma in un’estenuazione estetizzante che ha come base dinamica il piano e obbliga a tendere l’orecchio onde coglierne le introverse sottigliezze. Eppure si tratta, nel contempo, di una direzione precisa, asciutta, moderna, senza massenetismi e relative leziosaggini, con l’ovvia ed energica riapertura del balletto nell’atto II (dolorosamente tagliato, quella volta, a Venezia). L’orchestra si copre di gloria padroneggiando in un battibaleno le inflessioni della fonica francese; il coro fa altrettanto, ma per il semplice assunto che all’estero non ve n’è uno paragonabile, per caldo bouquet e sonora prestanza, a quello della Scala.

Sul versante teatrale, l’allestimento è nuovo e ha regìa di Olivier Py (al debutto italiano), scene e costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografia di Ivo Bauchiero. Non gli fa bene l’ancora vivido ricordo della Fenice, là ove un Pizzi sensibile, dotto e geniale al sommo grado commoveva, insegnava e torturava, citando il Cristo fra le croci di Lelio Orsi e il sé stesso di un precedente Parsifal lagunare: quest’ultimo calzante come non mai – Kundry prestava il proprio letto di fiori e spine alla tentazione e alla penitenza di Thaïs – per chiudere il cerchio concettuale. Py s’accontenta di rendere l’originale, leggendaria corte erotica di Alessandria d’Egitto come un variopinto ma squallido bordello nello stile di Amsterdam, e cade in un erroraccio che la dice lunga: colloca l’unico intervallo a metà dell’opera, tra i due quadri dell’atto II, dopo la celebre Méditation, e cioè tra la Thaïs lussuriosa e quella penitente. Sbaglia: il luogo della svolta, marcato dalla pausa, va lasciato alla fine dell’atto, non dove la donna cambia vita, ma dove i destini di lei e di Athanaël iniziano a invertirsi; questo è il soggetto dell’opera, perverso e stupendo, qui pressoché perso di vista.

Delicato il discorso intorno agli attori e cantanti, dallo loro ardua scrittura fino all’onerosa resa. Marina Rebeka regge con invidiabile sfrontatezza e luminosità ammaliante le inespugnabili sfide vocali della parte protagonistica, difettandole però, nel bagaglio retorico, il necessario tono della seduzione, dell’esotico, dello charme. Al previsto Ludovic Tézier subentra, come Athanaël, il professionale e solido Lucas Meachem: non memorabile, ma infallibilmente morbido, impegnato, sfumato. Più problematica la sostituzione dello squillante Francesco Demuro con l’evanescente Giovanni Sala; questi ha valide doti da tenore leggero, ma tanto più nella vasta sala piermariniana picchia alla mente che la parte di Nicias fu creata da Albert Raymond Alvarez, un cantante avvezzo a Radames e Otello, Tristan e Tannhäuser, Samson e Canio. Il comprimariato è scelto con cura; gli spettano di volta in volta ruoli di caratteristi, cammei virtuosistici e melodie streganti: Valentina Pluzhnikova e Insung Sim, come Albine e Palémon, corrispondono al primo caso; Federica Guida, come Charmeuse, al secondo; Caterina Sala e Anna-Doris Capitelli, come Crobyle e Myrtale, al terzo. Quanto allo spettatore, rimane in lui il desiderio di assistere ogni giorno a una Thaïs: che invece è un titolo raro, prezioso, proposto di rado, da godere non come lo svelto caffè di tutte le mattine, ma come il sublime tè millesimato dei giorni di festa.


 

 

 
 
 

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