La Scuola ritrovata
di Alberto Ponti
Dopo quasi due secoli e mezzo ritorna a Torino l'opera di Antonio Salieri che furoreggiò in tutta Europa sul finire del Settecento, in un'edizione godibile e pregevole per la cura nella concertazione e il livello degli interpreti
TORINO, Sgombriamo il campo dagli equivoci. Alcuni lavori letterari, pur di pregevole fattura, per una sorta di legge del contrappasso nei confronti della loro riuscita artistica, finiscono per produrre danni a lungo termine instaurando idee scorrette in coloro, e sono la maggioranza, che non conoscono l'argomento di fondo. L'esempio più clamoroso è forse rappresentato dalla leggenda secondo la quale Wolfgang Amadeus Mozart sarebbe stato nientemeno che ucciso col veleno dal rivale Antonio Salieri (1750-1825). Dal dramma di Puškin (Mozart e Salieri, 1830, titolo esplicito), con il quale acquista dignità letteraria, l'ipotesi passa all'operina di Rimskij-Korsakov (e siamo nel 1897), che a Puškin si rifà, per arrivare, più vicino a noi, alla pellicola Amadeus (1984) di Forman, la quale ne sdogana la legittimità presso il grande pubblico.
Nulla di tutto questo accadde in realtà e non staremo a ripercorrere gli studi musicologici impiegati per smentire la strampalata teoria che ha avuto se non altro il merito di mantenere vivo il nome di Salieri altrimenti destinato, purtroppo, a essere ancor meno noto di quanto non sia. Perché, ascoltando e ammirando questa Scuola de' gelosi, dramma giocoso in due atti ripreso con merito dal Teatro Regio dopo l'unica precedente rappresentazione torinese del 1780 (!) eseguita a ruota della prima veneziana al Teatro San Moisè, non si può non rimanere ammirati per l'altissima qualità della scrittura. Il compositore veneto si pone infatti tra i migliori e più acuti interpreti della sensibilità musicale della sua epoca. La perfetta pregnanza tra il gesto orchestrale nell'accompagnamento e il sentimento, la passione evocata dal testo del libretto vanno molto oltre il semplice ricorso agli stilemi del tardo Settecento che caratterizza tanti lavori teatrali di autori coevi, supportati da un mestiere solido e da isolati lampi di originalità, ma oggi del tutto sepolti nel ricordo. Salieri fu assai celebre e acclamato in vita e se non occupa un posto di primo piano nella storia lo si deve soprattutto ai vertiginosi esiti del teatro mozartiano, in grado di eclissare beninteso qualsiasi altro contemporaneo, compreso l'Haydn operista tuttora largamente dimenticato.
La Scuola nacque per l'appunto nel 1778 e Mozart è lì. All'italiano manca il suo genio ma l'arte non è solo genio e, quanto al rimanente, non siamo in presenza di un musicista minore. Mozart si avverte in filigrana, certe campiture strumentali e vocali sono già mozartiane e non si può escludere che il grande Wolfgang abbia a volte fatto tesoro di quanto creato dal più anziano collega. In modo analogo, nelle partiture di Luigi Cherubini pochi anni dopo si avvertirà in filigrana Beethoven, sincero estimatore del maestro nato a Firenze.
Il milieu culturale è lo stesso. Gli autori si rincorrono. Per l'edizione viennese dell'aprile 1783, il testo di alcune arie de La scuola de' gelosi fu riscritto da Lorenzo Da Ponte. Il libretto originario era firmato da Caterino Mazzolà, che ritroveremo autore dell'estrema Clemenza di Tito del salisburghese.
Lo spettacolo allestito dal Regio è gradevolissimo. La trama è tanto semplice nel suo leitmotiv da commedia degli equivoci quanto intricata nei suoi sviluppi: il ricco mercante Blasio è geloso della moglie Ernestina, perché si immagina, a torto, lo tradisca con il Conte di Bandiera. Lei, per provocarlo, finge di stare al gioco del nobiluomo, noto seduttore, finché Blasio, per ripagare la moglie con la medesima moneta, si mette a corteggiare la Contessa. Contrasto e contaminazione tra aristocrazia, borghesia e popolo, imbarazzo generale, manovre di servi e cameriere astute e tradizionale lieto fine col ritorno dei personaggi al consueto ménage ('Ah, non v'è piacer perfetto/più di quello di due sposi,/se gli stringe un dolce affetto/non incerta fedeltà'). Essenziale, a volte anche troppo, l'allestimento registico di Jean Renshaw, con scene e costumi curati da Christof Cremer, accattivante connubio tra antico e moderno, consistente in una grossa parete tappezzata incombente sul palcoscenico e aperta al centro, dove intorno a un'ulteriore parete mobile rotante su un perno centrale si svolge l'intera vicenda. Gli ambienti cambiano, 'girano' nel senso letterale del termine, eppure rimangono identici nella loro semplicità, in un vorticoso tourbillon di situazioni e colpi di scena in cui alla fine si scopre, come da manuale, che nulla è in realtà cambiato nella restaurazione della morale ancien régime.
L'instancabile danzatore Martin Dvořák, assai applaudito al termine, è il muto Carosello Dubbio, silenzioso deus ex machina, muto narratore onnisciente efficace nel dare movimento alla scena che non prevede per il resto interventi al di fuori di quelli dei protagonisti. Manca il coro e nei pochi pezzi d'insieme non v'è in azione che una manciata di personaggi.
Il cast vocale è una piacevole sorpresa su diversi fronti. Elisa Verzier è una Contessa ben a fuoco nella sua parte, precisa nell'intonazione, elegante nel fraseggio, convincente nelle due impegnative arie 'Gelosia, dispetto e sdegno' e 'Ah sia già de' miei sospiri'. Pure l'altro ruolo sopranile della moglie tradita in apparenza, Ernestina, è impersonato con decisione ed eleganza da Carolina Lippo, voce rotonda, buona tenuta del canto in una scrittura altrettanto impegnativa dove Salieri non concede sconti in particolare nel registro acuto.
Si disimpegnano in scioltezza i rispettivi partner: il baritono Askar Lashkin è un Blasio a trecentosessanta gradi, di statura attoriale innata e tecnica sicura, appena increspata da qualche ruvidezza nella salita verso l'alto. Omar Mancini ha un timbro tenorile più esile ma non privo di morbidezza e sempre accompagnato da un caldo afflato espressivo, un Conte ideale nella varietà di contesti drammatici a lui demandati, dal marito un po' leggero e farfallone all'uomo punto nell'orgoglio e tormentato dalla crescente gelosia, acclamato a scena aperta nell'aria del primo atto 'Chi può vedere oppresso'.
Tra i comprimari di ottimo livello, a cui Salieri dedica non secondarie occasioni di gloria tanto solistiche quanto collettive, emerge il basso-baritono di Adolfo Corrado, nella persona del servitore Lumaca, con un canto luminoso, vigoroso ed energico, capace di trascorrere con versatilità dal falsetto di tipica impronta comica in 'Tutto sì, ma moglie no' al piglio narrativo deciso dei due elaborati finali d'atto. Anna Marshania, mezzosoprano, e Jean Folqué, tenore, entrambi dalle emissioni maggiormente contenute in potenza completano il gruppetto ricoprendo con fine sensibilità i ruoli di Carlotta, cui spetta la prima aria dell'opera ('Gelosia d'amore è figlia'), e del Tenente.
Un'eccellente competenza va infine riconosciuta alla bacchetta di Nikolas Nägele, trentacinquenne tedesco molto attivo nel nostro paese, coadiuvato dall'Orchestra del Teatro Regio in un titolo fuori del repertorio ma dove nulla è lasciato al caso o all'approssimazione. Se davvero qualcosa si può rimproverare a questo giovane direttore è la delicatezza con cui affronta certi passi della partitura, dove la galanteria settecentesca di tradizione cede al passo a un sentire già quasi realista nel delineare con un'accentuazione armonica o una figurazione ritmica una situazione presente in scena. Numero dopo numero, la timidezza iniziale scompare, la personalità sale in cattedra e l'orchestra arriva ad essere l'ulteriore protagonista di uno spettacolo premiato dagli applausi di un pubblico numeroso e divertito, con tanti giovani in platea.