Rigoletto, finalmente
di Antonino Trotta
Alla Scala di Milano è strameritato il trionfo del nuovo allestimento di Rigoletto: Mario Martone e Michele Gamba firmano e realizzano uno spettacolo eccezionale; magnifico il cast, pur con qualche distinguo, che annovera Nadine Sierra, Amartuvshin Enkhbat e Pietro Pretti tra i protagonisti.
Milano, 2 luglio 2022 – Diciamo la verità, un buffone spacciatore o un Duca dalle cinquanta sfumature di grigio non sono una vera novità: d’altro canto, oggi, se Rigoletto lo si vuole modernizzare, o meglio calarlo in un contesto moderno – perché Rigoletto e Verdi sulla modernità c’hanno costruito una carriera, i problemi nascono proprio quando la si spegne scelleratamente –, sesso e droga regalano comodissimi punti di partenza. Nel nuovo allestimento scaligero di Rigoletto, però, questi assunti altro non sono che ipotesi poste lì per dimostrare, con grande efficacia, una tesi ben più articolata. Una tesi in cui l’oggetto della disamina registica è lo scontro tra classi sociali, il rapporto di malata subordinazione – squilibrata ma pur sempre bidirezionale – che lega il debole al potente, la rivalsa dell’uno sull’altro. E ci sta, ci sta benissimo, perché in fondo Rigoletto è anche questo, un uomo infognato in un vicolo cieco dal quale tenta di uscire prendendo sempre la scorciatoia sbagliata; un impavido che nell’arrogante convinzione di poter governare le dinamiche di due mondi, così distanti seppur contigui, alla fine si ritrova coll’essere da esse sopraffatto; un padre, volente o nolente, costretto a diventare ciò da cui tenta di proteggere, disperatamente, la figlia. Non v’è dubbio: nelle giuste mani Rigoletto può togliere il fiato e qui alla Scala Mario Martone e Michele Gamba costruiscono uno spettacolo che riesce appieno nell’intento. Già perché se le idee a monte sono, di per sé, assolutamente valide, il salto di autentica qualità sta tutto nell’ineccepibile realizzazione di quest’ultime. Su una piattaforma rotante superbamente pensata da Margherita Palli, ricchi e poveri, quartieri alti e quartieri bassi, buona e cattiva società – a voi stabilire quale è l’una e quale è l’altra – vivono uno alle spalle – e alle spese – dell’altro, ma non v’è una vera separazione: una porta li congiunge, una porta che come un’arteria veicola nutrimento – soldi, coca e prostitute – da una parte all’altra dello stesso organismo, una porta che a seconda di come la si guarda può apparire come l’ingresso del paradiso o la bocca dell’inferno ma che in fondo, più che per separare, è montata lì decisamente per unire. Vestiti da Ursula Patzak e illuminati da Pasquali Mari tutti recitano con cognizione di causa. La regia di Martone, di fatti, è curatissima al minimo dettaglio: nulla è affidato al caso, non si vede niente che non abbia un senso, la densità dello sfondo corrisponde sempre a una ricchezza di contenuto, finanche Gilda si tramuta in personaggio tridimensionale e abbandona quella casella da eterna svampita in cui si suole rilegarla.
A confermare l’eccezionalità di quanto si vede interviene un’osservazione del tutto personale: Amartuvshin Enkhbat, lo strepitoso baritono a cui s’ergerebbe una statua d’oro da venerare nel tempio dei grandi cantanti contemporanei, è in questo singolare contesto il protagonista che piace meno rispetto agli altri. Senza mettere in discussione la straordinaria maestria del canto, l’ineguagliabile qualità del mezzo, la possanza delle risorse vocali che oggi hanno pochi termini di paragone, qui alla Scala la lingua insiste su una certa rigidità attoriale che, in uno spettacolo così ben confezionato, rappresenta quei pochi, indigesti metri non guadagnati per raggiungere la perfezione. Nella gestualità, poi, Enkhbat ha ripresentato qui e là lo stesso Rigoletto – zoppicante, con un braccio semi-paralizzato – offerto a Genova due mesi or sono, in una messinscena che da questa di Martone è distante millenni luce: un vero peccato. Fantastica Nadine Sierra come Gilda, capace, come s’anticipava poc’anzi, di osservare le ragioni dell’interpretazione senza mai tradire quelle del canto. Così, con voce penetrante e plastica, a pieno agio tanto nei passaggi di bravura quanto nella aperture liriche dove colori, mezze voci e legato animano un fraseggio elegante e tenace, Sierra riesce a conferire inusitato spessore drammatico a un personaggio spesso licenziato con bamboleggiante imbecillità. Piero Pretti è un Duca subdolo, calcolatore, cantato con sicurezza di mezzi e fraseggio aristocratico; Gianluca Buratto uno Sparafucile di lusso. Eccellenti anche i comprimari: Marina Viotti (Maddalena), Fabrizio Beggi (Il Conte di Monterone), Costantino Finucci (Marullo), Francesco Pittari (Borsa), Andrea Pellegrini (Il Conte di Ceprano), Rosalia Cid (La Contessa di Ceprano), Corrado Cappitta (Uscire di corte), Mara Gaudenzi (Paggio). Di prim’ordine, infine, la prova del Coro del Teatro Alla Scala istruito dal maestro Alberto Malazzi.
Non meno entusiasmante delle regia è la regia musicale di Michele Gamba – chiamarla direzione sarebbe riduttivo – che, alla guida dell’Orchestra del Teatro Alla Scala, intavola una concertazione narrativamente eccitante, dall’incedere teatrale frenetico, calibratissima nelle dinamiche, nelle agogiche, nelle pause, disinteressata a sonorità patinate ma interessatissima a sonorità, talvolta ruvide, ricercate per esasperare il momento drammatico. Basti solo pensare a quell’inarrestabile «Cortigiani» che, senza la minima, fastidiosissima esitazione, s’attacca furioso e mitragliante alla scena che lo precede, già da sola articolata lungo un climax che trasforma le comode sedute di velluto in strumenti di perfida costrizione.
Ce n’è voluto di tempo, ma alla Scala finalmente s’è visto Rigoletto di Giuseppe Verdi.