Il terzo finale di Turandot
di Luca Fialdini
Nella 68a edizione del Festival Puccini torna Turandot nella regia di Daniele Abbado che segna il debutto sulle sponde del lago di Massaciuccoli di Michele Gamba
TORRE DE LAGO (LU) - Quando il finale di Turandot rappresenta un enigma troppo arduo da sciogliere - Alfano 1 o 2? Berio? o dove si interruppe Puccini? - ecco che viene in soccorso il meteo: per sua decisione unilaterale l’opera termina a poca distanza dalla conclusione, non molto dopo il coro funebre per Liù. Scelta obbligata che, lasciando a latere considerazioni scherzose, non può che far rientrare dalla finestra il vecchio interrogativo sulla necessità o meno di un finale per l’ultimo titolo pucciniano che vada oltre, appunto, il coro per Liù, che nelle intenzioni dell’autore doveva rappresentare la conclusione dell’opera; il lavoro incompleto, giunto solo attraverso bozze discontinue, è stato successivamente elaborato da Alfano e Berio che si sono portati dietro l’enorme problema che Puccini non seppe risolvere e cioè il libretto drammaturgicamente irrisolto: se da una parte il compositore lucchese considerava il coro per Liù «il massimo splendore» della propria musica, dall’altra c’era la problematica di un libretto che - in modo quasi disneyano - fa piombare sulla scena un happy ending che non riesce a innestarsi sulla drammaturgia (a questo proposito, chi scrive ritiene sensato non accanirsi sui frammenti basati sul libretto originale e prendere in considerazione due opzioni: far calare il sipario dove voleva Puccini o accogliere l’idea di modificare il libretto in modo da avere un finale coerente con un titolo così particolare, come la proposta di Bruno Rigacci in cui al bacio del principe Calaf Turandot si tramuta in pietra). Al netto di tutto ciò bisogna comunque rilevare che anche in questa edizione Turandot viene presentata con il finale di Berio; nuovamente una scelta obbligata dato che l’allestimento è costruito su di esso, però è confortante constatare che nell’era Battistelli una novità non da poco come quella di portare a Torre del Lago la proposta di Luciano Berio non sia stata una “prima e unica” ma che con questa siano stati gettati semi per un nuovo futuro.
Sull’allestimento onirico e fiabesco di Daniele Abbado si è già scritto lo scorso anno [leggi la recensione], ma vale la pena sottolineare l’eleganza della scelta di questo mondo irreale all’interno del quale si riescono ad armonizzare i profili di personaggi rozzamente intagliati nel legno e che proprio dalla loro natura archetipica traggono la propria forza; Abbado gioca con i concetti elastici di irrealtà e atemporalità per confezionare un microcosmo dove le scene e le luci di Angelo Linzalata sono una nota di pregio, ben integrata dai costumi di Giovanna Buzzi che offrono una lettura a più livelli coesistenti morbidamente nonostante le distanze cronologiche e geografiche.
Il debutto al Pucciniano del direttore Michele Gamba è senz’altro positivo: è evidente che una delle sue cifre sia la grande accortezza per il dettaglio, per la cesellatura e anche in questo caso non delude le aspettative; c’è un buon dialogo tra buca e palco e i tempi – a volte con qualche tacca di metronomo in più rispetto all’usato – sono senz’altro adeguati alla drammaturgia. L’aspetto di maggior interesse è la lettura che il direttore propone di questo ennesimo adattamento della fiaba teatrale di Gozzi: si puntano i riflettori su un Puccini che per una volta si scrolla di dosso il provincialismo tutto italiano dei titoli precedenti e abbraccia scopertamente il Novecento europeo con le sue asperità, le sue inquietudini, la sua energia pervasiva. Gamba esalta il linguaggio insolitamente asciutto del lucchese, marca le preziosità dell’orchestrazione (in particolare nel settore percussioni) e complessivamente l’Orchestra del Festival Puccini risponde bene a una lettura classica ma non troppo. Molto buoni il Coro del Festival e il Coro di voci bianche – rispettivamente preparati da Roberto Ardigò e da Chiara Mariani – sui quali pende qualche episodica scollatura da imputare più a movimenti registici non troppo felici.
A parte qualche eccezione, il cast è adeguato e musicalmente funziona: Francesco Lucii, Francesca Paoletti, Ayaka Kiwada e Davide Battiniello (nell’ordine Principe di Persia, I e II ancella, un Mandarino) assolvono la propria funzione e si amalgamano bene alla compagine negli assiemi; di miglior livello Ping, Pan e Pong interpretati da Giulio Mastrotaro, Didier Pieri e Francesco Pittari che oltre a eseguire davvero bene la parte si lanciano con sicura leggerezza in una serie di acrobazie ben gestite e brillano nel curato terzetto che apre il secondo atto.
Solido, dotato di una voce scura e profonda, il Timur di Abramo Rosalen, mentre Kazuky Yoshida è un imperatore Altoum ieratico, solenne, dalla buona presenza scenica.
Il vero problema risiede nella coppia attorno alla quale ruota la vicenda: Calaf e Turandot. Il primo, al secolo Theodor Ilincai, dimostra un’emissione faticosa nel registro acuto e un fraseggio non sempre adeguato; per onestà bisogna però riconoscere che in qualche modo riesce a garantire una sorta di continuità al ruolo ma la prestazione vocale tende allo scadente.
La seconda, Karine Babajanyan, possiede una presenza scenica buona e ricca di fascino (complici anche i costumi e dei provvidenziali colpi di vento), ma sin dall’ingresso dimostra uno strumento vocale problematico, dall’intonazione insicura e dalla dizione quasi incomprensibile.
La palma va senza ombra di dubbio a Emanuela Sgarlata, già recensita in questo titolo lo scorso anno: la sua Liù è ormai una sicurezza e in questa nuova edizione nel ruolo dimostra una crescita inattesa. Sicuramente è dotata di buone basi, ma Sgarlata dimostra soprattutto un efficace controllo tecnico, ragguardevole nei filati, e una espressività patetica che raggiunge il culmine nel fatale terzo atto.