Il senso di Nino per l'opera
Splendida chiusura di stagione per OperaLombardia, che porta da Pavia al Teatro Ponchielli di Cremona una produzione da ricordare di Napoli milionaria! di Nino Rota ed Eduardo De Filippo.
CREMONA, 20 gennaio 2023 - Si chiude in bellezza la stagione di Opera Lombardia; una stagione che si era aperta con una Norma eclatante [leggi le recensioni da Brescia e Como], ma aveva pure segnato punti importanti con un Don Giovanni pieno d'entusiasmo [leggi la recensione], una riuscita Gioconda [leggi la recensione] e una Traviata che ha osato [leggi la recensione]. Tutti titoli di grande repertorio, di quelli che talvolta le grandi fondazioni paventano, per le aspettative suscitate, e che invece con idee e buon fiuto hanno trovato soddisfazione o quantomeno soluzioni che aprivano il dibattito rifuggendo la banalità. Infine arriva l'inconsueto, il titolo che, viceversa, i grandi teatri possono temere non faccia cassetta, esca dalla confortevole zona dei titoli rari ma non troppo, del sofisticato che arreda e non impegna. Quante fondazioni liriche hanno messo in scena Napoli milionaria! di Nino Rota? Temiamo nessuna, e se qualcuna c'è stata la si guarda come a una mosca bianca. Nata a Spoleto nel 1977 resta roba da festival, o da provincia coraggiosa. Eppure, Napoli milionaria! è un capolavoro che non sfigurerebbe nei cartelloni delle capitali della musica. Basta ammettere che Nino Rota è stato uno dei più grandi compositori italiani del Novecento e che la popolarità di colonne sonore e temi accattivanti non autorizza ad alzar le spalle spocchiosi. Se il saper scrivere musica funzionale a uno scopo è un peccate, condannatelo, ma allora condannate anche Handel o Beethoven e Mendelssohn per aver accompagnato feste, fuochi d'artificio o rappresentazioni teatrali. Se il saper scrivere melodie felici e piacevoli è un peccato, condannatelo, ma allora condannate anche buona parte dei compositori più celebrati. E lo stesso si dica se si tirano in ballo rielaborazioni e ricorrenze di temi propri o altrui. Badiamo invece a un fatto: Rota scrive bene, sa orchestrare, padroneggia tutti gli strumenti che usa, contrappunto incluso. Rota ha una ferrea base classica, ma quando si tratta di metter mano a linguaggi moderni ed extra colti non si tira indietro e sa il fatto suo. Ha una facilità di scrittura e ispirazione disarmante, è vero, ma la sa sempre indirizzare allo scopo, al genere, trattando il materiale musicale con un misto di affetto e distacco oggettivo che da un lato lo rende moderno alla maniera del neoclassicismo di Stravinskij o Prokof'ev, dall'altro marca la sua peculiarità di seducente inattuale.
Tutto questo traspare evidente in Napoli milionaria!, là dove la collaborazione con Eduardo De Filippo si concretizza in musica che calza come un guanto al capolavoro teatrale partenopeo. Rota esprime sia i momenti comici e farseschi sia quelli tragici, il lirismo appassionato, gioioso o ferito, tutto senza che i contrasti si trasformino in squilibrio, bensì compenetrando e trasecolorando ad arte le atmosfere una nell'altra con una tensione magistrale. Basti pensare alla scena della finta morte di Gennaro, figlia di Gianni Schicchi o della Bohème ma senza ricalchi passivi, increspata dalla tensione delle continue risposte a tono del Brigadiere (che ha mangiato la foglia ma infine lascerà correre), per poi piombare nella più nera realtà alla notizia delle vittime dei bombardamenti. Oppure ad Assunta, che sembra pazza e potrebbe essere, con le sue risate incontrollate, un personaggio comico, se non fosse che la sua storia si rivela all'improvviso agghiacciante: repressa, costretta in ruoli imposti, senza mai aver conosciuto l'amore, si chiede se quel matrimonio per procura, mai consumato, con un militare disperso la renda vedova, moglie o zitella e conclude di non sapere più chi è, di non esser nessuno. Oppure al duetto bilingue fra gli amanti impossibilitati a comunicare Maria Rosaria e Johnny: lui la chiama “my little Butterfly” e fa pensare a un nomignolo che sia ammiccamento per il solo pubblico, se non fosse che alle sue parole “I am not Pinkerton” capiamo che l'allusione era consapevole per il personaggio oltre che per gli autori, mentre la ragazza, incinta e presto abbandonata, non lo comprende. L'ultimo atto, quello che più si discosta dal testo in prosa, mostra anche la capacità di Rota ed Eduardo di scrivere per l'opera, economizzando sulle sottotrame e sviluppando un epilogo tragico che fa crea un pendant – uno dei molti, si pensi al tema degli orecchini – con la scena del Brigadiere Ciappa: qui le cose finiscono male e Amedeo viene ucciso, l'opera si chiude sul compianto di Amalia sul figlio. La redenzione è negata, gli ipertrofici festeggiamenti del compleanno di Settebellizze sembravano avere il contraltare nella progressiva presa di coscienza di Gennaro di quanto avvenuto in sua assenza, e in effetti così sarebbe se quella guerra che “nunn'è fernuta” non irrompesse ancora una volta nelle piccole vicende private del basso napoletano. Il terzo atto potrebbe quasi sembrare prolisso se Rota, perfino nella giustamente ruffiana canzone di Villanova, non tendesse al massimo l'attesa di un male che incombe ma ancora non riusciamo a decifrare.
Si ride e si piange davvero. Rota ed De Filippo mescolano gli ingredienti, mescolano gli stili, ma non sbagliano un colpo.
Non lo sbaglia nemmeno la regia di Arturo Cirillo, proveniente da Martina Franca. I costumi di Gianluca Falaschi (ripresi da Anna Missaglia) sono al solito impeccabili nel definire nel dettaglio l'ambiente, i caratteri e la loro evoluzione. La scena di Dario Gessati, ben illuminata da Fiammetta Baldiserri, mostra parimenti la storia del basso della famiglia Iovine con un'economia di mezzi e un'efficacia visiva degni d'ammirazione. Cirillo muove tutti gli attori alla perfezione, l'azione è chiara, ben delineata in tutte le sue sfumature fra farsa e tragedia senza che mai un dettaglio sia trascurato o sopra le righe. Una lode anche per i figuranti Edoardo Pisati e Cristian Canova, per i ballerini Cecilia Pacillo e Oliviero Bifulco, che vanno a nozze con Rota nel muoversi sui nuovi ritmi americani in un'impostazione classica che ammicca a Ginger Rogers e Fred Astaire.
Il cast vocale è folto e ben assortito, a partire dall'Amalia di Clarissa Costanzo, che nella parte creata da una giovane Giovanna Casolla ha messo in luce il timbro corposo, denso, la facilità nel grave, la chiarezza di fraseggio e il trasporto necessari. Maria Rita Combattelli come Maria Rosaria (parte tenuta a battesimo da una Mariella Devia pressoché esordiente) è deliziosamente delicata nel suo passare da adolescente un po' ribelle a giovane donna illusa e delusa, pronta però ad affrontare il “disonore” senza mentire. Riccardo Della Sciucca, Errico Settebellizze, allo spessore vocale che non teme l'acuto unisce una presenza fisica perfetta per delineare sia l'intraprendete giovanotto che traffica con la borsa nera in guerra sia il gagà arricchito con loschi affari dopo l'Armistizio. Per contro, Mariano Buccino tratteggia con non minore efficacia, l'animo rude e bonario di Gennaro, la sua dolcezza paterna e la sua innata ma non stolida remissività; alla fine il reduce ha un che di profetico più che di folle. Bravo anche Marco Maglietta come Amedeo, Francesco Samuele Venuti come Johnny, Giovanna Lanza (Adelaide) e soprattutto Sabrina Sanza (Assunta brillante e toccante). Roberto Covatta, Giuseppe Esposito, Alberto Comes (prima brigadiere, poi maresciallo: cambiano i regimi, i funzionari si riciclano), Graziano Dallavalle, Pasquale Greco, Francesco Cascione, gli artisti del coro Sara Borrelli, Luisa Bertoli, Maria Paola Di Carlo, Christian Magrì, la piccola Federica Gambarana come Rituccia completano la lunga locandina con piena soddisfazione. Il coro preparato da Diego Maccagnola nondimeno rende piena giustizia ai suoi interventi da tragedia greca.
Direttore musicale dei Pomeriggi Musicali, James Feddeck conosce bene la sua orchestra e questo repertorio. Talvolta c'è il dubbio che il volume, nell'impeto, gli prenda un po' la mano, ma non v'è dubbio sulla qualità dell'esecuzione, sempre ben a fuoco anche nel colore strumentale, sulla cura della bacchetta nello scontornare tutti i riferimenti stilistici e i diversi affetti della partitura con fluido spirito di sintesi.
Se alla fine abbiamo pianto e riso, se usciamo dal Ponchielli felici e scossi, il merito è di Nino ed Eduardo, ma anche di chi ha dato loro corpo, suono e voce in buca e sul palco. Ora, altri prendano il loro esempio.