Grand par l’amour, plus grand par les pleurs
di Luca Fialdini
Non convince pienamente la nuova produzione di Les contes d’Hoffmann di Offenbach né per l’ideazione scenica né per la parte musicale, ma c’è un «ma»
MILANO 28 marzo 2023 – Il nuovo allestimento scaligero de Les contes d’Hoffmann ha ricevuto un’accoglienza critica tutt’altro che calorosa ed è stato demolito più o meno su tutti i fronti (a parte qualche voce fuori dal coro), ma andiamo con ordine.
Che in questa produzione ci siano problemi su più livelli è pacifico, il più importante di questi è sicuramente il discorso edizione e tagli: si continua ad utilizzare la vecchia edizione Choudens – con tutte le arbitrarietà del caso – piuttosto che quella di Keck del 2009, di fatto chiudendo le porte alla ricostruzione più completa e accurata in nostro possesso. Le motivazioni della scelta non sono chiare: il direttore Frédéric Chaslin ha parlato di errori nell’edizione Keck (?), mentre altri propendono per un più concreto problema di costi, dato che l’edizione Choudens è fuori tutela. Qualunque sia il reale motivo è davvero un peccato che proprio la Scala si ritrovi fra le mani un’edizione ormai ampiamente superata, oltretutto infarcita di tagli arbitrari.
L’edizione scelta e la drammaturgia sui generis del titolo non aiutano il lavoro del regista Davide Livermore, che però riesce a trovare una sua cifra e propone un’ideazione scenica d’interesse. È senz’altro vero che siamo molto lontani dai tradizionali Contes fiabeschi e coloratissimi, ma bisogna anche riconoscere che Livermore ha saputo creare un bell’equilibrio tra i toni fantastici di Offenbach (peraltro non sempre limpidi) e l’aura inquietante e grottesca tipica dei racconti di E. T. A. Hoffmann. Il comparto visivo è d’impatto, tra le splendide scene di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi e il disegno luci di Antonio Castro; ben eseguite le ombre della Compagnia Controluce ma risultano superflue sia per la suggestione sia per l’economia stessa della scena.
Livermore si muove con intelligenza tra richiami al musical di Broadway e suggestioni surrealiste, come nel caso dei grandi occhi sullo sfondo (che fanno molto Io ti salverò) e della grande rete che “sboccia” dal pianoforte di Antonia. L’unica nota stonata in tutto questo è un eccesso di elementi visivi sul palco, spesso ridondanti come un uso forse troppo ripetuto del tapis roulant e del drappeggio lasciato cadere dall’alto, ad esempio, oppure la ricerca di tutta una serie di azioni non giustificate che difficilmente trovano una spiegazione se non nel volere a tutti i costi un "effetto wow", come nel caso della macchina da scrivere che prende fuoco o l’enorme velo che copre gran parte della platea prima della Barcarolle dell’atto veneziano. Con un dosaggio più oculato degli elementi si sarebbe ottenuto un risultato sensibilmente migliore, in ogni caso già partendo da un’ottima base e soprattutto da una lettura interessante dell’opera.
Meno buono il lavoro di Chaslin sulla partitura che risulta in generale piatta e con pochi colori, anche se bisogna ammettere esserci un uso caratteristico delle percussioni. La direzione di Chaslin manca di quella brillantezza tutta offenbachiana, non si sente il filo dei suoi denti aguzzi, e soprattutto è appesantita da alcune problematiche di equilibrio (in più occasioni il volume dell’orchestra è troppo alto) e di tenuta, generando pochi ma distinti episodi di scollatura tra il palco – specialmente con il coro – e la buca o all’interno dell’orchestra stessa (i corni nell’aria "Jour et nuit je me mets en quatre"). Pur riconoscendo l’impressione di una propria visione musicale al titolo, nel momento in cui questa si rivela poco centrata si impoverisce ancora alla luce degli scricchiolii di una struttura che aveva bisogno di maggior rinforzo.
Buona l’Orchestra del Teatro alla Scala, molto più presente rispetto alla Bohème con Eun Sun Kim, ma ancora alle prese con un direttore che non la valorizza davvero. Bene anche il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi; a parte le (due) divergenze d’opinioni con la buca si conferma una formazione di spessore, apprezzabile la duttilità dimostrata nell’interpretare episodi tanto diversi con tanta riconoscibile differenziazione.
Il cast nel complesso reagisce bene e si mostra piuttosto coeso, ma con dislivelli tra le singole performance. Buoni i comprimari Alberto Rota (Un voix), Néstor Galván (Nathanael), Yann Beuron (Spalanzani) e Greta Doveri (Stella), quest’ultima dalla scuderia dell’Accademia del Teatro alla Scala. Alfonso Antoniozzi affronta il doppio ruolo di Luther/Crespel con gusto e verve inossidabile; doppio ruolo anche per Hugo Laporte (Hermann e Schlémil) con un risultato pulito e ben controllato.
Andrés/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio sono tutti impersonati dal bravo François Piolino, forse un po’ macchiettistico ma assolutamente meraviglioso nella recitazione tenuta appena sopra le righe ma non di più e nella strategia oculata di un non-canto – peraltro drammaturgicamente compatibile – che trova il suo apice negli acuti volontariamente sfiatati dell’aria dell’atto di Antonia. Proporre un approccio simile significa muoversi sul filo del rasoio, ma Piolino incassa un bel risultato.
Luca Pisaroni è in difficoltà nella gestione dei sulfurei Lindorf/Coppelius/Dottor Miracle/Dapertutto, quattro personaggi diversi che sembrano uno stesso personaggio ripetuto per quattro volte. L’impresa è difficile e la fatica nell’arrivare a fine serata è comprensibile, ma a livello di caratterizzazione si poteva fare di più considerate anche le sue doti attoriali. Ci sono anche difficoltà nel registro acuto ma, in qualche modo, in "Scintille, diamant" riesce a gestire la cosa senza danni.
Bravissima Marina Viotti nella doppia veste della Musa e di Nicklausse. Lo strumento vocale è pregevole, mantenendo anche una certa morbidezza in tutta l’estensione, e Viotti lo impreziosisce con un fraseggio curato; a questo si deve aggiungere una presenza scenica di grande fascino, disinvolta ma senza lasciare nulla al caso e molto efficace anche nelle situazioni meno usuali come l’aria con microfono in stile cafè chantant.
Singolare ma efficace la scelta di far interpretare le tre amate di Hoffmann a tre diverse cantanti. L’Olympia di Federica Guida possiede una vocalità interessante e la resa delle colorature c’è, ma da lei ci si attendeva qualcosa in più. Una buona prova e che prosegua su questa strada.
L’Antonia di Eleonora Buratto possiede uno strumento importante e lo sa anche gestire in modo intelligente, regalando la migliore delle tre interpretazioni intrisa di intenso patetismo nella parte finale. Sostiene bene i lunghi archi, dimostra facilità nell’acuto, dosa con gusto i colori – molto belli i piani – e riesce a rendere con pochi tratti il profilo di un personaggio in bilico tra innocenza ed esperienza, eros e thanatos.
Connotata in modo sensuale ma senza eccessi la Giulietta di Francesca Di Sauro: luminosa nel duetto con Hoffmann e molto riconoscibile nel settimino o sestetto con coro, Di Sauro si segnala come meritevole d’attenzione.
A fronteggiare il ruolo-monstre di Hoffmann l’aretino Vittorio Grigolo: il timbro chiaro, lo strumento generoso e la recitazione energica lo pongono fisiologicamente al centro dell’attenzione in ogni scena in cui appare. Grigolo prende di petto il ruolo, spendendosi fino all’ultimo fiato e apparentemente senza risparmiare energie, lasciandoci l’interrogativo su dove le prenda per cantare e recitare così per 3 ore e 40 minuti. Applausi lunghi e meritatissimi a fine rappresentazione.
Alla luce di tutto questo, com’è la nuova produzione dei Contes? In due parole, nella media. Non si tratta di qualcosa eccezionale – esistono problemi tecnici e d’interpretazione obiettivi – ma nemmeno di quella catastrofe che è stata dipinta. Come tipo di spettacolo, Les contes sono nettamente superiori ai Vespri siciliani conclusi il mese scorso e questi ultimi hanno come punti a favore “solo” la direzione e un paio di interpreti al massimo. L’unica cosa che possa veramente dispiacere è che con questo titolo si è giunti vicinissimi a una produzione che poteva uscire dalla media del cartellone di quest’anno, ma è mancato il quid che avrebbe potuto fare la differenza.