Ritorno al passato
di Roberta Pedrotti
La nuova produzione di Rigoletto firmata da Antonio Albanese per l'Arena di Verona colloca una regia assai tradizionale nella bassa padana alla metà del secolo scorso. Nel cast spicca la Gilda di Rosa Feola.
VERONA 1° luglio 2023 - Con la sua durata di circa tre mesi, il suo spazio unico, la presenza di migliaia di persone ogni sera, quello dell'Arena di Verona non può che essere un festival sui generis: magari la formula potrà essere messa in discussione, cambiata nel tempo, potrà scricchiolare e dover essere corretta, ma non potrà mai essere ricalcata su quella di altre manifestazioni. Semmai, allo stato attuale, può ricordare quella di un grande teatro di repertorio alla tedesca: allestimenti ripresi con regolarità (e poche prove), avvicendamento serrato di cast, con nomi anche stellari saltando spesso quasi direttamente in recita, nuove produzioni o riprese più accurate con maggior preparazione e meno cambi. Quest'anno a quest'ultimo gruppo appartengono Il barbiere di Siviglia (direttore unico e due cast), Aida e Rigoletto (più recite, più avvicendamenti, ma messa in scena inedita).
Dopo la discussa mondovisione di Aida e l'unanime successo per Rossini, mentre anche Carmen si è riaffacciata nell'anfiteatro, è arrivato, dunque, il turno del tragico buffone mantovano, affidato per la regia ad Antonio Albanese, per le scene a Juan Guillermo Nova, per i costumi a Valeria Donata Bettella, per le luci a Paolo Mazzon e per la coreografia a Luc Bouy. A far supporre che qualche prova in più non avrebbe fatto male non è mancato qualche intoppo tecnico, come la sospensione per alcuni minuti nel primo atto, quando avrebbe dovuto apparire la casa di Rigoletto ma la scena girevole pare essersi inceppata. Sia detto per inciso, l'effetto dell'apparizione del nido privato sulle parole “Ma in altr'uomo or qui mi cangio” può essere appropriato e anche suggestivo, ma in un luogo come questo è assai rischioso perché su una frase così delicata e introspettiva si stuzzica il riflesso del pubblico areniano a lanciarsi in applausi e manifestazioni d'ammirazione di fronte al cambio a vista. Poco male, comunque: il teatro è fatto anche di imprevisti e provvidi macchinisti che fanno ogni tanto capolino per una correzione in corso d'opera.
Lo spettacolo, di per sé, è d'impianto più che tradizionale e sembra fatto su misura per ospitare una girandola di cantanti rassicurati dal poter fare, all'incirca, quel che in scena hanno sempre fatto: il Duca si troverà sempre coppie di donzelle a dargli il braccio durante “Questa o quella” e via così, con tranquillità. Perfino troppa, dato che la corte orgiastica del nobile libertino diventa una festa di campagna con i bimbi che saltano la corda, ma pazienza: in questo contesto tranquillissimo ci sarà di certo chi, vedendo una foto on line, griderà allo scandalo, quando di scandaloso non c'è proprio nulla, anche se le scene e i costumi invece di rappresentare una corte rinascimentale ritraggono i campi della bassa padana. Ambientazione, peraltro, che non cozza affatto con le atmosfere verdiane, né stride – anzi – con l'immagine di un piccolo potente di provincia abituato ad avere ciò che vuole senza limite di etica o di legge. Insomma, uno spettacolo che, se non entusiasma, nemmeno scontenta e che potrà avere serena cittadinanza nei cartelloni futuri.
Sul piano musicale, Marco Armiliato, muovendosi in equilibrio fra opzioni filologiche ("un vindice avrai" come scritto) e tradizionali (molte puntature consuete) e si fa valere maggiormente nelle scene intime, arie e duetti. Il secondo atto è quello che funziona meglio, per esempio, così come piace il duetto fra Rigoletto e Sparafucile nel primo. Viceversa, la festa iniziale o la tempesta che precede l'epilogo soffrono di qualche squilibrio (da imputare fors'anche all'amplificazione) e scollamento di troppo. Anche in questo caso si è percepita la mancanza di qualche prova in più, che forse avrebbe dato più sicurezza a Yusif Eyvazov, al debutto in una parte abbastanza lontana dal suo repertorio abituale. L'idea di un Duca che sia “peso Radames” e non “peso Fenton” in realtà non spiace affatto, rende bene l'autorità sprezzante del personaggio, ne offre una visione più virile e minacciosa, ma non monolitica. Eyvazov è bravo, affronta l'acuto con spavalderia, qualche asprezza timbrica si sposa con l'asprezza del ruolo, la solidità dell'interprete dà sostanza agli accenti più sinceri; speriamo che alla sua seconda e ultima recita, il 7 luglio, una maggior tranquillità gli permetta di evitare qualche imprecisione (e riporti all'originale “Tua sorella e del vino” quel “Una stanza e del vino” improponibile nel 2023). Roman Burdenko, Rigoletto, è efficiente ma piuttosto ruvido e generico; già dalla prossima recita cederà il passo a una sfilata di autentici divi (Tézier, Salsi ed Enkhbat).
Ottima, invece, senza se e senza ma, la Gilda di Rosa Feola, subentrata alla prevista Nina Minasyan e impeccabile per emissione, gusto, franchezza di fraseggio, intonazione e morbidezza.
Gianluca Buratto è un sonoro e vigoroso Sparafucile, Valeria Girardello una Maddalena dal perfetto pysique du role; completano il cast con sicuro mestiere Agostina Smimmero (Giovanna), Gianfranco Montresor (Monterone), Nicolò Ceriani (Marullo), Riccardo Rados (Borsa), Roberto Accurso e Francesca Maionchi (i conti di Ceprano), Giorgi Manoshvili (Usciere) ed Elisabetta Zizzo (Paggio). Eccellente anche il lavoro di Roberto Gabbiani con l'ottimo coro della Fondazione Arena.
Alla fine, tanti applausi e buon successo per tutti. Il momento più bello, però, è quando un gruppo di ragazzini, alcuni dei quali bambini o poco più, fa capannello all'uscita artisti e chiede con educazione ed entusiasmo foto e autografi non solo al vip “extra operistico” Albanese, ma anche a tutto il cast e al maestro Armiliato. Questa è stata la scena migliore di questa prima.