L’araba fenice
di Luca Fialdini
Con il titolo d’apertura il Teatro Verdi di Pisa decide di puntare sulla qualità, regalando un Barbiere di Siviglia memorabile tra entusiasmi e contestazioni
PISA 27 ottobre 2023 – La stagione lirica 2023/2024 del Verdi di Pisa non avrebbe potuto sperare in una serata d’apertura migliore di quella dello scorso 27 ottobre, quando sulle tavole del teatro di Andrea Scala è stato presentato un Barbiere di Siviglia destinato a guadagnarsi uno spazio nella memoria degli spettatori, sia per la qualità della produzione sia per il retrogusto (abbastanza divertente) di succès de scandale. Andando dritti al nocciolo della questione, l’elemento che ha catapultato la recita al di sopra delle più rosee aspettative è la sostanziale equivalenza delle quatto componenti della produzione: cast, regia, direzione e orchestra giocavano allo stesso – alto – livello e, già che c’erano, compatte come un sol uomo; una comunione d’intenti su così tanti livelli che si vede assai di rado, un’apparizione fugace dell’araba fenice.
All’alzata di sipario, l’attenzione viene inevitabilmente colpita da un allestimento che trasporta al presente l’azione dell’opera e lo fa con molta intelligenza: la commedia borghese di Beaumarchais prima e Sterbini poi trova nuova forza nell’ideazione scenica dal respiro molto europeo di Luigi De Angelis del Progetto Fanny & Alexander (a sua firma regia, scene e luci) che attraverso lo spaccato della tipica casa borghese monofamiliare mostra lo spaccato di una borghesia oggi come allora in una fase di transizione: per Beaumarchais in ascesa, oggi in equilibrio sempre più precario. La scenografia è estremamente curata, realizzata con gusto e soprattutto con coerenza; se proprio doveva essere presente una strada sulla scena – ad esempio – è delizioso che sia trattata come una vera strada con pedoni, netturbini, inquinatori e devoti al fitness. A volte si tira un po’ la corda, come quando si chiede al pubblico di credere che la band prog sia l’accompagnamento della serenata di Lindoro, ma questo genere di forzature le faceva anche Fellini, quindi chi siamo noi per giudicare? Molto suggestiva invece la decisione di non mostrare mai il coro e di tenerlo celato alla vista a ogni ingresso sul palco, possibilità realizzata con eleganza in virtù della scenografia verticale con elementi scorrevoli. Ben integrati i costumi di Chiara Lagani, in linea con la drammaturgia visiva e caratterizzati da una raffinata ironia.
De Angelis ha anche l’accortezza di saper misurare i propri passi, nel senso che nella recita ha proposto tutto quello che può essere coerente con il Barbiere senza alterarne la natura; pertanto ci sono livelli di lettura e sottotesti, ma tutto è alluso o solo accennato. In effetti il passaggio da Beaumarchais al libretto di Sterbini è sensibile e c’è un trattamento della materia molto diverso (un risultato molto meno politico di quel che era stato concepito da Mozart e Da Ponte, per dirne una) e l’attenzione è focalizzata in modo importante sull’aspetto strettamente comico delle situazioni drammaturgiche, meno su altri scenari; in questo senso si muove anche il lavoro di De Angelis che ha l’intelligenza di non caricare l’opera di troppi elementi e ogni volta che sfiora un tasto particolare, il gesto è straordinariamente delicato e posto quasi in secondo piano. È il caso della morbosità di Bartolo verso Rosina o del rapporto con il potere, oppure del bacio omosessuale del secondo atto. Parlando di quest’ultimo, si tratta di un dettaglio così marginale e così discreto che non varrebbe nemmeno la pena di citarlo se non fosse che palesemente a causa di questo e della «regia moderna» Luigi De Angelis s’è preso un bel po’ di buuu a fine rappresentazione: durante il “Cessa di più resistere” – che per fortuna non è stato tagliato – ci sono state effusioni molto caste tra due ragazzi che hanno spinto parte del pubblico a rumoreggiare anche nel corso della scena. Oltre al fatto che il tutto è stato condotto con la massima delicatezza, non solo l’azione sottolineava un momento della drammaturgia cioè la frase “Annodar due cori amanti / è piacer che egual non ha” (quindi al massimo può essere vista come una scelta leggermente didascalica), ma oltretutto è stata preparata con grande intelligenza dall’incontro galante di Berta con il bel militare, molto più esplicito e se vogliamo “volgare” nelle modalità. Chi scrive fatica a trovare una motivazione allo sconcerto di una parte del pubblico.
Eccellente la direzione di Francesco Pasqualetti, alla testa di un’Orchestra della Toscana in stato di grazia. Pasqualetti propone cesellature preziose e investe moltissimo nelle timbrature, arrivando a impasti di archi e legni dal colore mozartiano; da menzionare anche l’attenzione riservata agli archi al ponticello, indicazione eseguita come nella contemporanea, cioè molto al ponticello. È stato compiuto anche un lavoro importante sui tempi, comodi per il canto e gestiti in modo strettamente drammaturgico, cioè modellati (come Rossini comanda) sulla tensione della singola frase nei confronti sia della voce sia dello strumento, un modo di leggere la partitura che da una parte consente di lavorare per intarsio e dall’altra rende vivido il quadro generale la cui coerenza viene sempre garantita dal direttore, esattamente come l’equilibrio tra palco e buca.
Da parte sua l’Orchestra della Toscana si dimostra straordinariamente duttile in questo contesto, ben seguendo l’idea della direzione e impreziosendola con un suono tanto brillante quanto pulito. Le singole sezioni si presentano solide e compatte ma il risultato d’insieme è molto superiore alla somma delle parti e ancora una volta vale la pena di sottolineare la meravigliosa ricerca timbrica e coloristica che rappresenta una delle cifre della rappresentazione stessa, caratteristica che rende l’orchestra stessa ulteriore personaggio dell’opera. Efficace e luminoso il Coro Arché preparato da Marco Bargagna, che ha saputo fornire un apporto d’interesse nonostante i pochi spazi concessi dalla partitura. Non ultima si segnala la pregevolissima realizzazione del continuo al fortepiano da parte di Riccardo Mascia, che se fosse stata affiancata da violoncello e contrabbasso sarebbe stata un capolavoro.
Il cast solistico ha fornito una prova assolutamente positiva e senza eccezioni, sin dai ruoli di contorno. Bene in parte Giorgio Marcello e Tommaso Corvaja (rispettivamente Ambrogio e Fiorello/un ufficiale); Paola Valentina Molinari è una Berta che scenicamente fa qualsiasi cosa con il giusto brivido di follia e al contempo fa mostra di uno strumento vocale dal timbro chiaro, con morbidezze espressive interessanti che non escludono una presenza importante che si evidenzia soprattutto nei concertati.
Signorilmente compassato e dal colore vocale splendido, il Don Basilio di Arturo Espinosa può vantare un colore brunito tendente allo scuro e un fraseggio scrupoloso: attira l’attenzione con una ben eseguita “Calunnia”, ma la maggior prova viene fornita con gli interventi nel secondo atto che rivelano anche una solidissima preparazione attoriale, elemento non secondario dato che De Angelis concepisce la scena con un taglio decisamente cinematografico.
Molto buono il Figaro di Gurgen Baveyan, dalla vocalità un po’ più leggera rispetto alla media del ruolo ma molto convincente nella recitazione. Baveyan interpreta con gusto il factotum ed evidenzia in modo sensibile l’intelligenza del personaggio, per non dire la connotazione da servo astuto tout court; c’è ancora qualche acerbità nel canto (ad esempio la tendenza a tirare indietro il tempo nelle agilità della cavatina e del duetto “Dunque io son”), ma è evidente che si tratta di un interprete in fase di consolidamento e che promette una buona riuscita proseguendo su questa strada, quindi ci auguriamo di ascoltarlo ancora e possibilmente in un futuro non troppo lontano.
Dave Monaco propone un Conte d’Almaviva dal timbro limpido, non sguaiato e con una bella facilità verso l’acuto. Pur giovanissimo sostiene in modo impeccabile un ruolo tutt’altro che lieve, con un quid in più di piacevolezza verso i momenti strettamente da commedia (“Pace e gioia sia con voi”) e capace anche di ammantarsi di una certa autorità nel finale del secondo atto. Le molte agilità del ruolo magari non sono nitidissime, ma a fronte di un risultato simile possono essere al massimo un peccato veniale e in particolare l'interpretazione del già citato “Cessa di più resistere” lasciano intende che sia lecito attendersi grandi cose per il futuro.
Quanto ad agilità, Chiara Amarù dimostra una perizia chirurgica nello sgranare uno dopo l’altro tutti i grappoli di colorature che Rossini le affida; c’è senz’altro una buona predisposizione naturale alla base, ma il totale controllo tecnico è lampante. Voce corposa con un differenziale caratteristico (nel registro grave si scurisce molto), mostra doti pirotecniche straordinarie insieme a una bella interiorizzazione del personaggio che si concretizza in un’interpretazione divertente e divertita ma anche con qualche lieve sentore di tenerezza, insomma tutti gli ingredienti per un’interprete rossiniana interessante e di alto livello, tecnicamente parlando è senza dubbio la migliore del cast.
Ultimo ma non ultimo, Roberto Abbondanza come Bartolo è meraviglioso, così chiaro nella dizione da essere comprensibile esattamente come se stesse parlando. Abbondanza tratteggia un personaggio burbero ma con qualche frivolezza, un po’ alla buona ma non sciocco, mai piacione, piuttosto un borbottone che ogni tanto trova pure il tempo di civettare con Rosina; la resa è divertentissima e non si può non restare ammirati per la leggerezza con cui il baritono si muove in scena: i gesti non sono mai eccessivi, basta un’espressione per dare il giusto colore a un’espressione. Un Bartolo di lusso!
Era da tempo che al Verdi di Pisa non si assisteva a una prima di stagione di così alto livello, almeno dalla Beggar’s opera di Robert Carsen del 2018, e fa piacere un investimento tanto serio sulla qualità. Non c’è che da augurarsi che sia solo il primo di una lunga serie di titoli della medesima levatura.