L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Voci, tele e statuine

di Antonino Trotta

Il Teatro Municipale di Piacenza accoglie con autentiche ovazioni il Don Carlo ora errante nel circuito emiliano: il cast è eccellente – gigantesco il Filippo II di Michele Pertusi –, la bacchetta di Jordi Bernàcer partecipa e attenta, eppur lo spettacolo fatica a decollare per la regia polverosa e rinunciataria di Joseph Franconi-Lee. 

leggi anche: Modena, Don Carlo, 05/11/2023

Piacenza, 12 novembre 2023 – Don Carlo è un’opera tanto monumentale quanto magnifica: imponente nelle dimensioni – anche nella versione in quattro atti –, esigente come poche nella letteratura verdiana in termini di domanda a buca e palcoscenico, densa nel materiale letterario che ne forgia l’ossatura drammatica, sembrava, almeno fino a poco tempo fa, una sfida per ogni teatro che osasse programmarla in cartellone. Oggi invece, nel giro di neanche un mese, se ne susseguono ben tre produzioni distinte sparse per le fortunate pianure dell’Italia settentrionale. La prima, festeggiatissima, nasce nel circuito teatrale nostrano più virtuoso, quello emiliano, e chiude la stagione 2022/2023 del teatro più virtuoso di quel circuito, il Municipale di Piacenza. Manco a dirlo, accoglienza strepitosa, pioggia di applausi, sala piena fino all’orlo: nelle terre di Verdi il Don Carlo non si ignora, soprattutto se affidato a una compagnia di canto di primissimo ordine.

Su tutti giganteggia Michele Pertusi nei panni di Filippo II. Immenso nell’arte del canto, grandioso in quella dell’espressione, vocale e scenica, Pertusi stravince perché capaCe di ritrarre, ora con un gesto, ora con un accento, una dinamica, un sussurro, il regnante di Spagna non solo nell’ebrezza concessagli dal potere ma anzitutto e soprattutto nella miseria in cui versa la sua anima. Difficilmente si potrà ascoltare un Filippo II più rifinito nel fraseggio, più screziato nei colori, più scolpito nella parola e così, inevitabilmente, quel soliloquio mattutino, tutto proferito a mezza voce, segna il punto più alto dell’intera rappresentazione. 

Quanto a magnetismo nemmeno Teresa Romano scherza. Aggraziata e briosa nella canzone del velo, prorompente nel terzetto del secondo atto, appassionata e afflitta nell’aria, il (mezzo)soprano campano sa costruire nel corso dei quattro atti – e senza l’aiuto di una regia – un personaggio che evolve ed involve e che, dunque, racconta. Certo, la resa vocale, come già notato dalla collega Irina Sorokina nelle recite modenesi, soffre qui e là di ruggiti o artifizi, ma il tutto passa quasi in secondo piano se sul palcoscenico si aggira la sua ferina Eboli facendo sfoggio di un sì travolgente temperamento. 

Il temperamento non manca nemmeno ad Anna Pirozzi, nonostante rimanga più ingessata sulla scena. Per un soprano avvezzo a salir su troni aurati e a lordarsi le mani di sangue, il ruolo di Elisabetta può sembrare in certi punti – «Non pianger mia compagna» ad esempio – leggermente stretto, tuttavia quell’aurea matronale, severa, disincantata con cui la Pirozzi modella il suo personaggio ben rendono l’idea di quel tormento asciutto che disidrata lo spirito della regina. Quando poi il dramma infiamma e la cantante può aprire le valvole – là dove insomma la scrittura si fa congeniale –, come nel primo duetto con Don Carlo, nella mitica ariona o ancora nel finale – il si in chiusura è un’autentica folgore –, Anna Pirozzi fa appello alle generose risorse e si guadagna le meritate ovazioni. 

Di risorse vocali preziose ne ha a volontà anche Ernesto Petti, qui alle prese con un Rodrigo galante, assai nobile nella linea di canto, timbrato ed omogeneo in tutta l’arcata della sua statuaria voce, decisamente ricercato nelle dinamiche con cui sfaccetta il fraseggio. Ha pure il don fatal che ammanta ulteriormente il fascino del suo marchese di Posa, peccato se ne stia sempre impalato lì dove l’hanno messo, con la sinistra sull’impugnatura della spada e la destra a porgere l’acuto; si scioglie solo quando muore e, va detto, muove davvero bene, a conferma che volendo sa anche recitare. 

Nel ruolo del titolo Paolo Lardizzone, in sostituzione dell’indisposto Piero Pretti, è chiamato a un debutto anticipato e felice. Ci propone un Don Carlo ardimentoso, sicuro e squillante nell’emissione, fragrante nel porgere, e se qualche volta perde il fuoco sull’intonazione, poco importa. 

Corretti, infine, si sono dimostrati Ramaz Chikviladze (Il Grande Inquisitore), Andrea Pellegrini (Un frate), Michela Antenucci (Tebaldo/Voce dal cielo) e Andrea Galli (Il conte di Lerma/Araldo reale) e bene ha fatto anche il Coro Lirico di Modena istruito dal maestro Giovanni Farina. 

Alla guida dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna “Arturo Toscanini”, Jordi Bernàcer dirige il Don Carlo con una bacchetta sciabolante: qui dove la partitura procede con un ritmo da bava alla bocca, Bernàcer procede senza indugi assecondando di volta in volta, con metronomo flessuoso e tinte cangianti, il momento teatrale; e pur se qualche momento abbisognava di maggior attenzione in termini di pathos, la lettura del maestro spagnolo convince senza alcuna fatica.   

Si fa assai fatica invece a digerire la regia distratta e rinunciataria di Josep Franconi-Lee che riesce incredibilmente, pur con un testo semplicemente straripante, a confezionare uno spettacolo che oscilla tra il noioso e il ridicolo. Il punto, ovviamente, non sta nelle scenografie a tele dipinte – in qualche atto capaci di regalare un bellissimo colpo d’occhio – o nei costumi d’epoca – che, francamente, non stanno benissimo a tutti – curati da Alessandro Ciammarughi, quanto nella cura con cui s’è data vita a questi elementi: alla corte di Eboli, le damigelle sullo sfondo danzano con in volto la gioia di chi si è appena visto pignorato il velo; Elisabetta, la regina, vuole schiaffeggiare Eboli subito dopo averla perdonata e appena prima che le comincino a girare sul serio; la rivolta e l’Autodafè coordinati senza il minimo tentativo di risultare credibili. E se non si vede sta roba qua, i cantanti se ne stanno immobili in proscenio, spartendosi lo spazio in maniera equa, come se fossero appena usciti da un convegno di geometri. 

Gli applausi, comunque, sono trionfali e a noi non resta che aspettare l’inizio della nuova, succulente e goduriosa stagione del Municipale. 


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