L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il colore di una nazione nascente

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia propone un concerto di musica ceca, diretto da un esperto del repertorio come Jakub Hrůša: Te Deum op. 103 B 176 e Leggenda n. 6 dalle Dieci Leggende op. 59 B 122 di Antonín Dvořák assieme a Il vangelo eterno e Taras Bulba di Leoš Janáček. L’accoglienza da parte del pubblico è buona.

ROMA, 22 aprile 2023 – La cultura europea della seconda metà dell’800, imbevuta dell’estetica tardo-romantica, è una fucina di identità nazionali, le quali esploderanno, inesorabilmente, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, con tutto il ben noto portato tragico. In questa dinamica i compositori concorrono a creare il suono dell’identità nazionale stessa, il colore musicale che distingue un popolo dall’altro. Antonín Dvořák e Leoš Janáček, del resto, hanno fatto proprio questo: hanno concorso a creare l’identità boemo-morava, che oggi si identifica con quella ceca. E lo hanno fatto con un approccio estetico, con una sensibilità differente: più internazionale e puramente romantico Dvořák, più locale, intenso Janáček.

La serata presenta come tema conduttore quello della leggenda e della preghiera. Si inizia con il Te Deum di Dvořák, composizione che è stata interpretata come ‘americana’ nella sua scrittura a tratti trionfalistica, ma che può forse meglio leggersi come un omaggio luminoso al divino – fermo restando, certo, che si tratta del primo successo del compositore in America, paese in cui fu chiamato a dirigere il neonato Conservatorio di New York. Ad eseguirlo, nelle parti solistiche, sono Kateřina Kněžíková e Vito Priante. La Kněžíková ha una voce splendida, tersa, piena, controllata con maestria tanto nella parte acuta, che nei vari passaggi. Il Sanctus, dalla melodia avvolgente, cullante, carezza gli spettatori grazie all’interpretazione del soprano, che si distingue per la purezza della linea di canto – ma si citi anche l’attacco del Dignare Domine. Anche Priante regala una performance ragguardevole, tirando fuori una voce imperiosa, squillante, soprattutto nell’attacco del Tu Rex gloriae, Christi e profondendosi in una linea di canto legata, morbida, che rende giustizia a una melodia ancora puramente romantica, quasi operistica, che costituisce il nerbo della sua parte. Eccellente, al solito, il Coro dell’Accademia, in tutte le compagini e nei vari momenti della partitura, da quelli più soffusi ai passaggi più decisi. L’orchestra suona divinamente, ben diretta da Jakub Hrůša, il quale, pur non risultando effettivamente incisivo, porge, complessivamente, una buona lettura della partitura, lasciando cantare solisti e coro. Il primo tempo si chiude su un’esecuzione soffusa della Leggenda op. 59 n. 6, una ballata cullante, sospesa, dalle sonorità intensamente boeme, quintessenza dello stile musicale di Dvořák: in questo pezzo, forse, Hrůša lascia intravedere maggior carattere.

Se il primo tempo è dedicato a Dvořák, il secondo lascia spazio alla musica di Leoš Janáček. Si inizia con Il vangelo eterno, una cantata per tenore e coro su testi di Jaroslav Vrchlický, opera figlia del deflagrare della Prima Guerra Mondiale e dello spirito panteistico cui aderiva il compositore. Hrůša conduce l’orchestra attraverso una partitura sospesa, energica, tesa, vibrante, che sovente verticalizza una massa orchestrale imponente, ma mai realmente pesante, talaltre rimane come cristallizzata in angoscianti momenti di attesa; il direttore, complessivamente, fa un buon lavoro. Voce del mistico Gioacchino da Fiore è Nicky Spence, tenore dal fraseggio stentoreo, la cui voce penetra l’orchestra ed il coro stagliandosi luminosa, con quel grado di metallico vibrato che si confà bene al personaggio. La cantata, infatti, è un dialogo fra il mistico Gioacchino ed il Coro su quanto il mondo sia in rovina e sull’attesa messianica di un rinnovamento, annunciato a Gioacchino stesso da un Messo celeste (interpretato da Kateřina Kněžíková), cioè l’avvento del Terzo impero, quello dell’amore eterno. Il concerto si conclude con Taras Bulba, una rapsodia per orchestra ispirata al racconto di Kicolai Gogol’ sull’omonimo eroe russo. Oltre ad incarnare la rivalsa dello spirito moravo, Taras Bulba risente della speranza delle genti di Boemia e Moravia di essere affrancate dalla Russia, tolte al giogo dell’Impero Austroungarico. Hrůša, pur ancora mostrando prudenza in rapporto alle potenzialità espressive della partitura, dirige attento ai ritmi, ai colori ed ai blocchi sonori che costituiscono questa rapsodia. Il primo quadro, Morte di Andrij, è soprattutto notevole per il tema dolce, amoroso, tenuamente cantato dall’orchestra e turbato da una scrittura sinistra, che evoca la morte del giovane, traditore, appunto, per l’amore di una bella polacca; nel secondo quadro, Morte di Ostap, la parte più impressionante è il diabolico ritmo, sprezzante, che apre la «sbilenca mazurka» (Carlo Maria Cella, dal programma di sala); la sezione finale, Profezia e morte di Taras Bulba, porta direttore e orchestra verso una baraonda sonora potente, fatta di sezioni bruckneriane paratattiche, che hanno il loro fulcro in una melodia puntata da voluminosi interventi dell’organo. Il pubblico pare aver gradito il concerto, regalando gentili applausi.


 

 

 
 
 

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