In nome del Papa Re
di Roberta Pedrotti
Per la prima volta al Rossini Opera Festival la Cantata in onore del sommo pontefice Pio IX, ultimo cimento del Pesarese nel genere encomiastico d'occasione.
PESARO, 15 agosto 2023 - Prima di diventare l'ultimo Papa Re, residuo (ufficiale) di un potere terreno e assoluto che si ergeva come un reperto dell'ancien régime mentre si faceva l'unità d'Italia, Pio IX era stato la speranza dei liberali, avendo aperto il suo pontificato, nel 1846, con la liberazione dei prigionieri politici. Sublime atto di clemenza di sapore settecentesco e, per lo spazio di un mattino, promessa di una possibile svolta progressista perfino nello stato pontificio. La promessa non venne mantenuta.
Intanto, però, si festeggia e si celebra, tanto più che il nuovo papa è nato come Giovanni Maria Mastai Ferretti a pochi chilometri da Pesaro, a Sinigallia, e pare sia un buon intenditore di musica, soprattutto rossiniana. E, dunque, come non chiedere al Napoleone dei compositori, ritiratosi dal teatro ma non certo inattivo, di celebrare l'inaugurazione del regno e la magnanimità del successore di Pietro?
La partitura, eseguita il primo gennaio 1847, è grandiosa, ma l'ascoltatore moderno non si aspetti nulla di nuovo: nemmeno per un papa avrebbe avuto senso un tale sforzo d'ingegno da bruciarsi per una sola esecuzione, tanto più che Rossini disponeva di tutto il materiale adatto allo scopo e inedito per le scene romane. Il testo di Giovanni Marchetti è prevedibilmente un'esaltazione teologica del nuovo pontefice a partire dalla stretta attualità (il coro grato dei prigionieri liberati e l'esultanza dell'Amor Pubblico) per proiettarsi nel futuro (l'intervento della Speranza) e concludere per voce dello Spirito Cristiano celebrando le imprese e le virtù di Pio IX, che prima di salire al soglio pontificio aveva anche visitato l'America latina con spirito evangelizzatore. La sinfonia e la prima “scena” vengono da Ricciardo e Zoraide, il coretto delle fanciulle seguaci della Speranza da Ermione, il quartetto in cui la Speranza stessa commenta l'elezione del papa da Armida con il tempo lento ancora da Ricciardo e Zoraide, il racconto dello Spirito Cristiano e il finale dalla profezia e benedizione delle insegne del Siège de Corinthe. Tutte pagine di grande impatto e respiro solenne e maestoso, quand'anche alcune parti vocali siano limate (non disponendo di un Nozzari, l'aria di Agorante si addomestica nell'estensione, per esempio, sebbene oggi l'orecchio aduso anche a “Minacci pur, disprezzo” porta a inserire variazioni simili in “La sua possente voce”): non sarà una sorpresa, ma la Cantata in onore del Sommo pontefice Pio IX è un gran bel sentire, oltre che la testimonianza di un gusto, di una prassi, di un modo di percepire, utilizzare e riutilizzare la materia musicale.
Sembra incredibile, ma a Pesaro non si era mai data e rendere disponibile il testo in sovratitoli o in digitale sul sito del Rof non sarebbe stata forse una cattiva idea. I rossiniani più fortunati e di lunga data (fra cui la sottoscritta) potranno ricordarne nel 1998 una memorabile edizione romana con i complessi dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e un cast notevolissimo: Devia, Flórez, Alberghini, Palacio diretti da sir Neville Marriner. Più diffusa è, poi, l'incisione di Riccardo Chailly con la Filarmonica della Scala, ancora Devia attorniata da Kelly, Pertusi e Piccoli. Tutte edizioni piuttosto sfarzose, come impone d'altra parte il cerimoniale pontificio.
A Pesaro, purtroppo, la buona volontà della Filarmonica Rossini e del coro del Ventidio Basso deve anche scontrarsi con la collocazione obbligata al Teatro Sperimentale, che, al di là delle condizioni d'ascolto per il pubblico, non offre il miglior ritorno e la più utile percezione di sé ai musicisti sul palco. Così, qualche difficoltà si percepisce, specie nella banda interna (che, poi, interna ovviamente non può essere, ma disposta in orchestra), nell'impasto corale, nel controllo delle voci. Marina Monzò, per esempio, canta molto bene la parte della Speranza, ma sembra talora in difficoltà nel controllo dell'acuto, cosa più che comprensibile in un palcoscenico acusticamente secco. Pietro Adaini dà l'impressione di affidarsi alla natura, che senz'altro è stata generosa per la propensione all'acuto, ma non lo aiuta sempre a calibrare l'emissione e il virtuosismo in questo contesto – e con un'aria così ardua. Le frasi del Corifeo non pongono difficoltà ad Antonio Garés, mentre il solenne finale (la scena corrispondente da Le siège de Corinthe è esplicito riferimento al giuramento di Agia Lavra e alla sortita di Missolungi, episodi della guerra d'indipendenza greca che scossero l'opinione pubblica europea) mette in luce la qualità timbrica e la dizione scolpita di Michael Mofidian, nome da tenere a mente. La direzione di Christopher Franklin è solida, incline al carattere più estroverso della celebrazione pubblica di un regnante, infine funzionale a testo e contesto.
Il pubblico rossiniano decide imperterrito di passare così il pomeriggio di Ferragosto e alla fine applaude festoso, gratificato dal bis del finale. E mentre ci abbandoniamo ancora una volta all'esultanza per il Papa Re creduto liberale, si spartiscono i nostri pensieri l'ammirazione e il godimento per la mera scrittura, la solidarietà con i musicisti nel far mentalmente la tara delle difficoltà dello spazio e della partitura, l'anelito verso un sublime solo vagheggiato.