Nella fitta selva di metà Ottocento
di Alberto Ponti
Il trentenne pianista ucraino Dmytro Choni, medaglia di bronzo al Concorso 'Van Cliburn' 2022, si fa apprezzare nell'impegnativo primo Concerto di Brahms. Juraj Valčuha si conferma una garanzia nel repertorio romantico
TORINO, 22 febbraio 2024 - Di primo acchito, la caratteristica più evidente del pianismo di Dmytro Choni, nato a Kiev nel 1993 e chiamato all’ultimo per sostituire Yefim Bronfman, è una innata gentilezza e colloquialità del suono, mai sopra le righe e sempre estremamente controllato sia nel canto sciolto che nei passi di maggior enfasi tecnica. Il compito, al di là del prendere il posto alla tastiera di un mostro sacro del calibro di Bronfman, non era semplice essendo in programma il Concerto per pianoforte n. 1 in re minore op. 15 di Johannes Brahms, pagina il cui enorme fascino dipende anche dalla sua complessità. Concepito tra il 1854 e il 1858 in principio come una sinfonia e poi trasformatosi dopo numerosi ripensamenti nella veste definitiva, il lavoro testimonia la ricerca da parte del compositore di una propria strada personale, mostrando un venticinquenne che può permettersi di muoversi sul filo di tutte le possibilità, cosa che non sarà più concessa all’artista maturo che verrà e che lo rende così differente dal secondo concerto che nascerà solo nel 1881. Brahms spande lampi in diverse direzioni, illuminando col suo genio, sotto le fronde della fittissima ed affollata selva della musica al giro di boa dell’Ottocento, scorci in ombra, sentieri lontani, percorsi paralleli o improvvisamente divergenti destinati a non essere poi seguiti. Esiste un filo sotterraneo che parte dal finale della Sonata op. 1, attraversa la Serenata in re maggiore, prosegue in questo concerto ed approda al primo movimento della prima sinfonia (cui l’autore lavorava nello stesso periodo) e infine a certi luoghi delle Variazioni su tema di Händel e di Haydn per poi perdersi per sempre. Un Brahms che prende le mosse dall’ultimo Schumann, intriso di inquietudine nervosa ed esuberanza giovanile, prodromico di esiti diversissimi da quelli, pure eccelsi, che verranno raggiunti dal compositore appena pochi anni dopo. E’ la seduzione di un pensiero che è nel cuore e sulle labbra, in cui per un istante crediamo, ma che il destino farà in modo che non venga mai pronunciato. Choni possiede tutte le carte in regola per affrontare il giusto spirito del Maestoso iniziale, combattuto tra il drammatico motivo d’esordio all’orchestra e la scrittura pianistica di natura spesso sognante e introversa, trovando un giusto equilibrio fra la poesia del secondo tema, contornato dai dialoghi coi legni e col corno, e l’energia dello sviluppo, dove il trentenne ucraino sa piazzare la zampata del virtuoso di razza, senza rinunciare a quel senso della misura che ne è la cifra stilistica. Avrà occasione di dimostrarlo anche nel pirotecnico Soirée de Vienne di Alfred Grünfeld, basato su temi della Fledermaus di Strauss ed eseguito come bis. Né mancala capacità di ricreare l’atmosfera magica e sospesa dell’Adagio, uno dei vertici dell’ispirazione brahmsiana, dalla profondità espressiva ricreata con pochi tocchi di cantabilità ora dolente ora luminosa sostenuta da un accorto utilizzo del pedale e da un’intesa immediata con l’orchestra guidata da Juraj Valčuha. Piccoli scollamenti, nonostante il buon bilanciamento del volume sonoro, nascono invece nel brillante Rondò finale, con il rapporto tra solo e tutti più problematico in termini di gioco tra le parti che talvolta paiono far parte di due mondi contrapposti destinati non sempre a incrociarsi e compenetrarsi. Ciò non inficia la maestria di Dmytro Choni che, se saprà aggiungere una nota di personalità ulteriore alle proprie performance, sarà destinato a far parlare di sé per molti anni a venire.
Nella seconda parte sale in cattedra Valčuha, con una bella lettura della seconda sinfonia in do maggiore op. 61 di Robert Schumann. Si rimane quindi nell'alveo del pieno romanticismo di matrice germanica, che di poco precede l'opera di Brahms. Il merito del direttore è notevole nella misura in cui le partiture sinfoniche di Schumann non mancano di presentare tratti di problematicità, in particolare nei primi tempi delle sinfonie dove si chiarisce l'intento programmatico del suo genio creativo. Schumann, in grado di concepire da capo a fondo interi universi e di raggiungere altezze inaudite quando pensa per il pianoforte, non ha in campo orchestrale l'eleganza di scrittura di Mendelssohn, la temerarietà rustica di Liszt, l'infallibile fiuto per il timbro di Wagner, per non citare che tre suoi contemporanei. Ha però uno sguardo di lunga gittata, che introduce nelle sue sinfonie presagi di un futuro (derivazione ciclica dei temi, certe asprezze nel trattamento dell'orchestra) che diverrà lettera corrente solo sul finire dell'Ottocento. Il piglio di Valčuha, che a Torino all'OSN Rai è di casa, si fa sentire nello stacco deciso del Sostenuto assai introduttivo, nella baldanza degli interventi dei fiati nell'Allegro ma non troppo, nella perfetta scansione ritmica dello Scherzo, con i passaggi veloci, nati nell'officina di Schumann sulla tastiera del pianoforte e trasposti poi agli archi, che i violinisti si sognano di notte, nella tensione narrativa imposta all'Adagio espressivo. Con il tempo il gesto del maestro slovacco si è fatto più essenziale all'aspetto ma di grande efficacia nel risultato. Basta un suo sguardo ad una sezione di strumenti e subito ottiene la reazione desiderata. Il pieno controllo dei mezzi non esclude l'abbandono al puro piacere della melodia, come nei due trii del già citato celebre Scherzo, autentico manifesto del sentire romantico intriso, soprattutto il secondo, di inguaribile Sehnsucht, oppure nel finale quando, dopo il tumultuoso inizio, si fa strada il tema indicato dolce in partitura che condurrà, attraverso progressive stratificazioni, al finale affermativo e trionfale.
Applausi convinti di un pubblico numeroso per un'esecuzione di elevato impatto emotivo.