Nel segno di Titta Ruffo
di Roberta Pedrotti
Ludovic Tézier fa il suo debutto ufficiale di fronte al pubblico bolognese con un entusiasmante galà in cui aleggia un significativo omaggio a Titta Ruffo. Sul podio dei complessi del Teatro Comunale, Daniel Oren.
BOLOGNA, 20 aprile 2024 - Fra il cartellone operistico e quello sinfonico, i concerti di canto sono un'eccezione relativamente rara per il Comunale di Bologna, tant'è vero che il sito mette in evidenza per ogni programma solo il direttore e non i solisti, siano anche di strumento. Niente Liederabend o recital per voce e pianoforte, insomma, ma qualche galà lirico sinfonico sì, soprattutto se capita l'occasione per intercettare un divo che sarebbe magari difficile coinvolgere per un'intera produzione. Ludovic Tézier a Bologna e con l'orchestra del Comunale ha inciso anche un CD verdiano: evidentemente si è trovato bene e torna volentieri, per la gioia di tutti. Perché, diciamolo subito, la serata è un autentico trionfo, con applausi interminabili e ovazioni già dopo il primo brano, il Prologo dei Pagliacci.
Non c'è dubbio: il baritono francese sa come conquistare il pubblico, ha una comunicativa immediata, un carisma sornione che si appropria subito e senza scampo della platea. Tézier sa il fatto suo, da scaltrissima volpe teatrale, ma se vince è per arte e non per artificio. Basti pensare alla franchezza per nulla scontata nelle intenzioni della scena che precede “Cortigiani, vil razza dannata”, in perfetta continuità con la tensione e la mobilità dell'aria, fin da un'invettiva scolpita con fiera fermezza. È un programma tutto a tinte forti, esuberante, perfino viscerale, ma Tézier sa tenersi al riparo dalle trappole del birignao per esprimere tutta la carica sanguigna di un impaginato che, fatta eccezione per il citato Rigoletto, ha il suo nucleo a cavallo fra Otto e Novecento, fra la Scapigliatura (“Pescator, affonda l'esca” dalla Gioconda) e la Giovine Scuola. La natura e l'indole è sempre quella di un baritono grand seigneur che sa quando e come può essere opportuno calcar la mano, quando il dramma urge e come debba soppesarsi nella parola per non trascendere nel grand guignol. La spavalderia, l'orgoglio, il pathos, la furia o la lussuria non si confondono mai con la volgarità. La timbratura e la pastosità della voce, la tenuta del fiato sempre in funzione della musica e dell'espressione vanno di pari passo con la sicurezza e l'omogeneità del registro acuto, ma soprattutto con un'attenzione alla parola che si direbbe da madrelingua e non fa avvertire differenze di confidenza che si tratti del Te Deum di Scarpia, di Nemico della patria o dei couplet di Escamillo.
Gli si affiancano per i pertichini e per il Regina Coeli da Cavalleria rusticana alcuni valenti giovani della Scuola dell'Opera del Comunale, di cui purtroppo le locandine tacciono i nomi. Un ruolo importante spetta anche al Coro preparato da Gea Garatti Ansini, che offre anche un gradito bis dal Macbeth appena andato in scena con “Patria oppressa” e rende omaggio a Puccini con il coro a bocca chiusa da Madama Butterfly. Rispetto ai solisti la posizione dietro l'orchestra non favorisce l'incisività di tutti gli interventi, ma è una questione acustica per la quale nulla può essere imputato al coro, che anzi dimostra un'ottima versatilità nell'attraversare pagine così diverse. Pagine che, con la sinfonia di Nabucco e gli intermezzi da Manon Lescaut e Cavalleria rusticana, Daniel Oren affronta con l'impeto energico ed esuberante che gli conosciamo, più sicuro ed entusiasta rispetto alla recita di Macbeth cui avevamo assistito pochi giorni prima, sebbene qualche approssimazione sia comunque avvertibile. L'impressionante, innata musicalità del ragazzino che colpì Leonard Bernstein e del giovanotto che vinse il premio Karajan ha visto nel tempo prevalere la componente istintuale e oggi, pur mantenendo guizzi ancora fascinosi, pare travolta dall'esuberanza ruggente e senza freni del maturo direttore. D'altra parte, sarebbe falso e ingiusto negare l'efficacia di Oren nel franco successo di una serata permeata d'entusiasmo. Una serata d'altri tempi, si potrebbe dire, di puro godimento melomane senza troppi pensieri.
Eppure, questo galà non è solo questo, non è solo un appuntamento con il ruspante loggionismo di una volta, pagine famose (o famose qualche annetto fa, come nel caso di "Zazà, piccola zingara" di Leoncavallo)) con una grande voce e un'orchestra irruente. Nel richiamo al passato si profila la figura di Titta Ruffo, che delle arie in programma fu interprete di riferimento, ai limiti dell'identificazione. L'omaggio, poi, si fa scoperto quando Tézier intona il bis: “Ô vin, dissipe la tristesse” dall'Hamlet di Thomas. Un brano caro al baritono francese, che proprio con quest'opera si rivelò giovane e semisconosciuto al pubblico italiano (noi che eravamo a Torino nel 2001 lo ricordiamo bene), ma anche un cavallo di battaglia di Titta Ruffo, che lo cantava ovviamente in italiano: quando Tézier attacca la ripresa “O vino discaccia la tristezza” il richiamo evidente, l'omaggio sottinteso e toccante. Non si tratta solo di ricordare un grande cantante del passato, infatti, e non si sa quanto sia voluta, ma la coincidenza non passa inosservata: siamo alla vigilia dell'anniversario della Liberazione di Bologna (21 aprile), a pochi giorni dalla festa della Liberazione nazionale, nel centenario dell'omicidio di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924). E Matteotti era fraterno amico e cognato di Titta Ruffo, che portò la bara ai funerali e dal quel giorno non cantò mai più in Italia, entrando in aperta rotta di collisione con il regime. Un esempio di coscienza civile e rigore morale che, con quello di Toscanini, non va dimenticato.
Così, usciamo dall'Auditorium Manzoni con l'ebrezza della passione melomane mescolata alla riconoscenza e allo sprone di un alto esempio d'uomo e artista.