Il suono del fiume
di Roberta Pedrotti
Il cartellone primaverile di Bologna Festival culmina in un magnifico concerto della Bayerische Staatsorchester con Vladimir Jurowski sul podio ed Emmanuel Ax solista. Sui leggii Weber, Beethoven e Schumann, ma anche Schubert/Liszt e Mozart.
BOLOGNA, 31 maggio 2024 - Un grande programma, un grande solista, un grande direttore e una grande orchestra. Bastano questi elementi a fare un grande concerto? Non è sempre detto, non stiamo parlando di una scienza esatta. E proprio perché non si tratta di matematica, può anche succedere che il risultato superi, e di molto, perfino la somma degli addendi.
L'ouverture da Oberon di Weber, il Concerto per pianoforte e orchestra n.5 Imperatore di Beethoven e la sinfonia n. 3 Renana di Schumann non sono solo tre capisaldi del repertorio, tre occasioni per sfoggiare le virtù degli esecutori in confronti storici vertiginosi. Sono anche tre pezzi emblematici del passaggio dal classicismo viennese al romanticismo tedesco, con Beethoven ineludibile punto di riferimento, pietra miliare e del paragone, Weber a segnare il passo decisivo dalla Zauberoper settecentesca (e mozartiana) al fantastico ottocentesco al quale si abbevererà il giovane Wagner, Schumann infine a sviluppare un'interiorità bipolare, a dibattersi fra laceranti contrasti sotto la stella polare del compositore di Bonn. Il programma, insomma, dipinge un preciso quadro storico ed estetico attraverso tre volti distinti ma ben intenti a scambiarsi reciproci sguardi.
In questo repertorio tedesco è lecito aspettarsi dalla Bayerische Staatsorchester la maggior idiomaticità, ma non si tratta solo di confidenza e consuetudine, che pure sono evidenti come è evidente l'alto livello individuale di tutti i professori. Il punto è proprio che non è l'individuo, per quanto bravo, a fare l'orchestra, che la qualità dei singoli è importante, ma non è tutto: quel che subito fa la differenza e distingue con complesso come questo è il senso della collettività, il suono frutto del reciproco ascolto e quindi sempre compatto in un unico respiro, in una musicalità condivisa. Ascoltare la Bayerische Staatsorchester non significa (solo) ascoltare degli splendidi musicisti, ma significa incontrare un organismo con un'identità precisa, una comunità sonora che è già tale nel momento dell'accordatura, un mare di miele e velluto pronto a prender forma. Si avverte costante il gusto di suonare insieme, di partecipare in un'idea, di rendersi strumento duttile, reattivo e propositivo nel dialogo con direttore e solista.
Non si tratta semplicemente di suonare bene o benissimo, ma di essere orchestra, di essere musica.
Allora, quando entrano in gioco Emanuel Ax e Vladimir Jurowski al pianoforte e sul podio si può davvero volare. Il primo dipana la scrittura beethoveniana con una luminosità abbacinante, trilli di una purezza quasi irreale, delicatezze timbriche e ceselli che sembrano ricamare meccanismi di carillon. L'eco del classicismo è ben viva, così come risulta palpabile la consapevolezza di un pianismo agli albori, ancora ben lontano da quel che saranno i mondi di Liszt o Rachmaninov; il pensiero è, però, sublimato, non archeologico, bensì connaturato all'utopia verso la quale Beethoven si protende con inesausta tensione. Dopo aver giostrato con sciolta sapienza la leggerezza di tocco e l'incisività d'accento, Ax offre “Der Müller und der Bach” di Schubert nella trascrizione di Liszt, perla di cantabilità legata tanto tersa quanto sfumata.
Dal ruscello della Die schone Müllerin, l'intervallo ci conduce al Reno di Schumann, altra metafora del fluire della vita, dei gorghi dell'anima fra abisso e trasparenze che scintillano al sole. L'attacco di Jurowski è subito travolgente, come pervaso da un fuoco demoniaco, da un palpito profondo. Non sembra concesso un attimo di respiro immergendoci nei flutti della Renana con questo nocchiero intrepido, saggio e sicuro. La barra è ben dritta all'orizzonte, senza temere di scandagliare le profondità più oscure né rinunciare ad ammirare il paesaggio lambito da fiume. Lo sguardo di Jurowski vede chiara la dimensione metafisica del viaggio di Robert/Eusebio/Florestano lungo il Reno, corrente eraclitea la cui identità è connaturata al continuo divenire. Ecco allora che i cinque movimenti scorrono perfettamente consequenziali, congiunti nei loro rimandi interni, ma pure plasticamente definiti senza meccanicismi, intellettualismi, effettismi di sorta. Non c'è spazio per gli -ismi, solo per una tensione interna inafferrabile ma ben leggibile anche nella dolcezza di una fatal quiete dosata con l'intelligenza e la sensibilità dell'artista di classe superiore, forte della perfetta sintonia con la propria orchestra. Basterebbe ascoltare anche solo la transizione fra il terzo e il quarto movimento per rimanere attoniti di fronte a tanta magnifica e vibrante compostezza, a un lavorìo dinamico che nulla lascia al caso ma nulla esibisce. Anzi, appare quasi sobrio, discreto tanto è fluido e naturale, sottile, devoto al testo e al senso. Riconquistando lo slancio del primo movimento, poi, il quinto dalla meditazione dei due precedenti mostra ancora piccoli abbandoni, quasi una stanchezza che via via si rinfranca verso un finale degno del magnifico viaggio tracciato da Jurowski.
E non finisce qui, perché anche il bis è pensato per chiudere il cerchio: Zauberoper di Weber in apertura, Zauberoper di Mozart per congedarsi; il modello beethoveniano al culmine del classicismo viennese verso l'Ottocento e il modello mozartiano all'apice del XVIII secolo; il percorso interiore di Schumann alla fine del programma ufficiale, il percorso iniziatico della Zauberflöte per chiudere il tutto. I tre accordi solenni e poi il fugato verso la luce ci concedono un'ultima meraviglia. Di più, stasera, non oseremmo sperare.