L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Musica e Storia

di Stefano Ceccarelli

Tugan Sokhiev torna a dirigere l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con una monumentale esecuzione della Sinfonia n. 7 in Do maggiore, op. 60 di Dmitrij Šostakovič, la famosa “Leningrado”.

ROMA, 8 giugno 2024 – A distanza di poco meno di un mese (leggi la recensione), Tugan Sokhiev ritorna a dirigere la maggiore orchestra italiana con un programma, ancora una volta, russo: la Settima di Dmitrij Šostakovič, una sinfonia storica nel vero senso della parola. Sokhiev è noto, peraltro, proprio per l’attenzione alla valorizzazione del fulgido patrimonio musicale russo, di cui è grande esperto ed interprete, in particolare per spirito – il che è qualcosa di misconosciuto, talvolta, a molti direttori d’orchestra. Non stupisce, dunque, che il risultato di questa Settima sia fenomenale.

La Leningrado, che si chiama così proprio perché Šostakovič la compose mentre era nella sua amata città assediata dai nazisti – quegli storici 872 giorni del 1941 – è «un grande affresco di impronta epica, in cui la personale esperienza della sofferenza e della guerra determinano la scelta dei materiali e lo svolgimento della forma» (G. Mattietti, dal programma di sala). Sokhiev ne interpreta, come meglio non si potrebbe, non solo le grandi frasi, le tensioni che mirano sempre a esplodere, ma anche l’architettura generale, equilibrata; il vero talento di Sokhiev è, in definitiva, quello di saper infondere alla partitura, mediante un’agogica vigorosa e precisa, tutta la forza sonora, ritmica ed espressiva, che costituisce lo spirito più autentico di Šostakovič. Mercé, poi, l’eccellente orchestra dell’Accademia, il risultato non può che essere memorabile. Il monumentale Allegretto è un eccellente esempio di quello che dico: Sokhiev è mirabile nell’esprimere l’irrompere della guerra dopo il placido inizio, dirigendo quel crescendo imperniato sul rullo dei tamburi con incredibile maestria e facendo, infine, esplodere l’orchestra in una fanfara marziale («nello sviluppo, la guerra irrompe nella vita pacifica delle persone. […] Sto cercando di trasmettere l’immagine della guerra da un punto di vista emotivo», così lo stesso compositore). L’effetto è talmente originale che colpisce ogni volta l’ascoltatore, a prescindere da quanto conosca la “Leningrado”. Il Moderato (II), che fa la parte dello scherzo, mostra quei precipui caratteri šostakovičani, una delle firme più autentiche del compositore: sovrapposizione di trame ritmiche eterogenee, elementi parodico-ironici, uso ‘acido’ di timbriche strumentali (come i fiati: soprattutto, in questo caso, il clarinetto). Sokhiev si muove magnificamente in questa delicata ragnatela, valorizzando l’eteroclita scrittura del russo; del pari fa con il successivo Adagio, «centro drammatico dell’intera sinfonia» (Mattietti). Qui Sokhiev esprime con pienezza espressiva le drammatiche frasi degli archi, calcando anche i contraltari cavernosi dei fiati, alcuni dei quali si librano, però, in sezioni sospese (si pensi al malinconico tema del flauto). Il tutto è in perfetto equilibrio e con estrema naturalezza si giunge alla potente climax che spegne, poi, il movimento. Il Finale, glorioso e luminoso, viene reso da Sokhiev perfettamente aderente alla volontà del compositore: «la mia idea di vittoria non è qualcosa di brutale. È meglio spiegato come la vittoria della luce sulle tenebre, dell’umanità sulla barbarie, della ragione sulla reazione». L’energia è liberata nell’esposizione dei temi e nell’epico sviluppo, che conduce ad un finale che è una sorta di apoteosi, un auspicio, peraltro, acché la guerra arridesse favorevolmente alla Russia sovietica – come, poi, effettivamente fu. Il pubblico applaude fragorosamente.


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