Divagazioni meccaniche
di Mario Tedeschi Turco
Nonostante la qualità degli esecutori, desta più d'una perplessità il concerto veronese dell'Accademia di Santa Cecilia con Gianandrea Noseda sul podio e Jan Lisiecki e Francesco Piemontesi solisti
VERONA, 18 settembre 2024 - Arriva al «Settembre dell’Accademia» l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, nel terzo appuntamento del festival al Teatro Filarmonico. L’ensemble romano, guidato da Gianandrea Noseda, sta portando in tournée un programma piuttosto originale, composto dalla Overture da concerto Con brio di Jörg Widmann (edita nel 2008), dal mozartiano Concerto per due pianoforti K. 365 (Jan Lisiecki e Francesco Piemontesi solisti) e dalla Quinta sinfonia di Beethoven, in una complessione di classicità e sue deviazioni/rivisitazioni intellettualmente assai stimolante. Il brano di Widmann è concepito e realizzato infatti come evidente omaggio al Genio di Bonn in una doppia direzione, quella del ritmo e quella del klangwollen, vale a dire dell’intenzionalità sonora intesa come parametro strutturale. Nessuna citazione diretta, dalle sinfonie beethoveniane, ma di quelle il gesto assertivo, la pulsazione e frantumazione ritmica, la ricerca della costruzione fonica per sé, in un linguaggio contemporaneo aspro, dissonante, che impiega frequenti effetti come l’uso percussivo degli archi bassi e soprattutto il trattamento dei fiati senza risonanza diretta, con folate e brusii assortiti annotati nella partitura quali soffi senza frequenze, da emettere talora con la bocca aperta onde coinvolgere le cavità orali o la lingua nella produzione delle vibrazioni prevalentemente ritmiche. Ne sortisce un caleidoscopio idiosincratico di energia poliritmica, i suoni polverizzati a evocare l’analogo procedimento operato da Beethoven all’interno della forma sonata (ovviamente in altra sintassi melodica, armonica e contrappuntistica), con serie motiviche brevi e iterate in sovrapposizione, le quali declinano una stralunata poesia, sostanziata di tensione crescente verso l’accumulo privo di risoluzione, e per questo ben sintonizzata con la nostra «age of anxiety» e i suoi stridenti contrasti. Santa Cecilia si è mossa con virtuosismo, all’interno di queste strutture, ben guidata dal gesto tecnicamente preciso di Noseda e con un apporto di competenza dei singoli gruppi strumentali di livello notevolissimo.
Dopo questa elettrica, geniale e talora spiazzante Overture, il concerto di Mozart ha preso l’aspetto di un ritorno all’ordine che crediamo non sia dispiaciuto ai più tradizionalisti tra i frequentatori della rassegna: il K. 365 è una piccola gemma di lirismo, leggerezza narrativa e spunti umoristici i quali, strutturati come sono essenzialmente sulle risorse delle tastiere più che nel dialogo con l’orchestra, richiederebbero esecutori che di lirismo, leggerezza e umorismo fossero forniti in abbondanza: spiace invece dover notare che, a fronte di una tecnica immacolata da parte di entrambi, dell’aerea espressività mozartiana sia giunto assai poco, in un gioco digitale meccanico, privo di nuances dinamiche e costantemente gonfiato nel suono globale, tutto teso alla correttezza del timing (ottenuta senz’altro), e dimentico di espressione e fraseggio drammatico. Funzionale l’accompagnamento di Noseda, qua e là forse un po’ forzato (chissà, forse per cercare un minimo di senso che dai pianoforti non giungeva), ma esecuzione poco soddisfacente. Né tanto meglio è risultato il primo bis offerto dai due pianisti, questa volta a quattro mani, la Danza slava op. 46, n. 8 di Dvořák, che nella pur luccicante pesantezza di cui sopra è stato ugualmente contesto. Meglio il secondo bis, durante il quale – a due pianoforti – Lisiecki e Piemontesi si sono limitati all’accompagnamento del primo violoncello dell’orchestra in un intenso Cigno di Saint-Saëns. Il pubblico ha comunque salutato con grande entusiasmo l’esibizione dei due pianisti - forse mostrandosi un po’ troppo rapito dall’indubbio glamour dei due giovani, direbbe qualche malevolo commentatore.
L’esecuzione della Quinta sinfonia (e dell’Overture dal Flauto magico, quale bis) è stata pienamente appagante quanto a chiarezza di linee, tornitura di suono ed equilibrio fonico delle sezioni, ennesima riprova, da parte dell’orchestra, di una consapevolezza e perizia tecnica di eccellenza. Ma la direzione di Noseda ci è parsa priva di idee, e anzi incerta, nei tempi, in una lettura secca e antiretorica (quindi tendenzialmente spedita nel passo), che però non si è aperta che nell’ultimo movimento a quel fraseggio eloquente e drammatico che, della Quinta, ci pare la carne e il sangue. Ieratico e solenne, il Flauto magico, e qua e là decisamente pesante, ma altresì con ottime soluzioni di risalto timbrico e varietà dinamiche, specie nel trattamento degli ottoni. Non la migliore Santa Cecilia ascoltabile, dunque (con Pappano e Mikko Franck, sempre al Filarmonico negli scorsi anni, c’era da saltar sulla sedia per la sovrabbondanza di idee interpretative e per la pura magnificenza sonora), ma pur sempre un ensemble di qualità davvero ragguardevole.