L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Accoppiamenti giudiziosi

di Alberto Ponti

Il solista inglese Nicolas Hodges chiude gli appuntamenti torinesi di MITO Settembre Musica accostando quasi senza soluzione di continuità lo Schubert della Sonata D840 alla grandiosa Sonata di Barraqué

Di fronte al programma del recital di Nicolas Hodges, ultimo concerto torinese di MITO Settembre Musica, viene alla mente il titolo della raccolta di racconti di Carlo Emilio Gadda sopra riportato, nonostante i pezzi siano solamente due e di conseguenza, a rigor di logica, si dovrebbe forse parlare di 'accoppiamento' al singolare. Giudizioso lo è però senza dubbio perché, al di là dell'apparente lontananza di tempi e di stili, le due sonate proposte dal pianista inglese, eseguite praticamente senza stacco se non per una folata di applausi dopo la prima, presto taciuta dal fulmineo assidersi alla tastiera di Hodges per attaccare la seconda, instaurano tra loro evidenti e misteriose corrispondenze. Si comincia con Franz Schubert e la sua Sonata in do maggiore D 840, pubblicata postuma con l'appellativo di 'Reliquie' e risalente al 1825, che potrebbe definirsi sorella sul versante pianistico, con due soli movimenti completati per intero, della sinfonia Incompiuta. E come in quest'ultima siamo in presenza di uno dei vertici dell'arte schubertiana. Hodges gioca sulla palpabile influenza beethoveniana, tanto nel Moderato che nel successivo Andante, delineando con energia i temi principali, strettamente derivati dall'embrione melodico esposto dalle due mani all'unisono alle battute iniziali. La sua lettura è più drammatica che metafisica ma non eccede mai nella ricerca dell'impressione plateale, stemperandosi anzi a tratti in un estatico vigore, nella sovrapposizione di legato alla destra e staccato alla sinistra del secondo tema del primo movimento, oppure nella pioggia di delicatissimi accordi variati che sottolinea ogni ripresa dell'idea conduttrice dell'Andante in 6/8. L'interpretazione di Hodges si palesa così per chiarezza di tocco, pulizia di fraseggio, personale sensibilità in grado di trasmettersi in modo spontaneo e immediato all'uditorio, trasportato in un universo di emozioni a fior di pelle, dove i contrasti sotterranei si amalgamano in un'armonia superiore.

Il medesimo risultato si raggiunge nella grandiosa Sonata (1950-52) di Jean Barraqué, autore troppo presto scomparso quarantacinquenne nel 1973 dopo aver completato appena una manciata di opere memorabili. Il pezzo, dalla durata di 40 minuti abbondanti, è costruito secondo il più rigoroso serialismo ma è allo stesso tempo latore di una tangibile comunicativa. Il solista affronta con disinvoltura le temibili difficoltà di scrittura del brano, appena aiutato da una ragazza intenta a girare le pagine dello spartito (come anche in Schubert). A un esordio tempestoso intessuto di folate di note acute sulla tastiera, rappresentate con capricciosa ed efficace libertà da Hodges, contrappuntate da pesanti cluster ed ammassi materici nel registro più basso, segue una parte meno mossa, architettata in larga misura sempre sull'accostamento grave/acuto, spinto all'estremo e congelato all'interno di un metro narrativo contemplativo. Dopo la sferzata dell'attacco, la platea viene accarezzata da suoni quasi incorporei che hanno la forza di un incantesimo. Ancora una rabbiosa fiammata, e l'ultima solitaria nota emerge dal silenzio al pari di una domanda inaspettata. È giusto che ognuno dia la propria risposta ad eccezione di quei pochi presenti fuggiti durante l'esecuzione del pezzo, peraltro accolto da un entusiasmo di rado riservato a questo tipo di repertorio. Un'ora di musica densa e coinvolgente e un grande protagonista al pianoforte per uno dei concerti di maggior valore dell'intera rassegna.


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