L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Estremi opposti

di Mario Tedeschi Turco

Nel penultimo appuntamento del Settembre dell'Accademia filarmonica di Verona, se la prima parte del concerto delude per il pianismo muscolare di Anna Vinnitskaya in Čajkovskij, la seconda si riscatta con l'ottima prova dei Wiener Symphoniker in Bartók.

VERONA, 22 settembre 2029 - Sarà anche cugina minore della grandiosa Filarmonica di Vienna, ma una compagine come quella dei Wiener Symphoniker, attiva dal 1900, è pur sempre un’orchestra di qualità superiore, in tutto degna della sua tradizione, e di quella più ampia delle compagini sinfoniche dell’area germanica: suono vellutato negli archi, brillante negli strumentini, intonatissima negli ottoni, ben bilanciata negli spessori fonici relativi, è giunta al «Settembre dell’Accademia» domenica 22 guidata dal suo attuale direttore principale, Petr Popelka, con il quale ha dimostrato intesa infallibile. Spiace dover notare tuttavia che queste indubbie qualità si siano palesate nella serata veronese solo nella seconda parte del concerto: nella prima parte, infatti, il Concerto n. 1 di Čajkovskij ha visto quale solista Anna Vinnitskaya, pianista dotatissima la quale tuttavia è parsa avere del Concerto una visione a senso unico. Già dalle prime battute con la sequenza accordale il suono del pianoforte è andato a coprire la massa orchestrale e la prima esposizione della celeberrima melodia, e nel prosieguo non si sono contati i momenti nei quali lo squilibrio dinamico l’ha fatta da padrone, sommandosi altresì a taluni sbandamenti ritmici, peraltro prontamente ripresi dall’attentissimo Popelka. Ora, che il brano di Čajkovskij abbia anche un afflato epico, e che tale dimensione eroica ne possa costituire la cifra fondante, è certo interpretazione del tutto accettabile. Ma che l’epos debba essere declinato esclusivamente da una tastiera in costante forte e fortissimo, senza che si realizzi il necessario scontro di masse sonore con l’orchestra; che le deliquescenze liriche e la visceralità melodica vengano eluse con un martellamento survoltato continuo; che le reminiscenze del canto e delle danze slavi si perdano in un fraseggio inerte, teso unicamente alla produzione di volume; bene, tutto questo ci è parso andare a costruire una fondamentale immobilità espressiva, la quale non ha restituito che in minima parte la grandezza del capolavoro čajkovskiano: che poi la Vinnitskaya abbia anche sviluppato qua e là una notevole energia, fin quasi all’ebbrezza dell’azzardo acustico, è senz’altro da rilevare, così come è da sottolineare la sua totale sicurezza digitale. Ma il complesso dell’esecuzione ci è sembrato molto deludente, lontanissimo dalla scrittura ondulatoria di Čajkovskij, dalla sua lacerata poesia, dalla sua tensione oltreumana verso la composizione degli opposti (dinamici, timbrici, melodici) in senso drammatico. Il pubblico ha comunque gradito, e la pianista ha offerto due bis.

Tutt’altra riuscita, si diceva, nella seconda parte della serata, dedicata al Concerto per orchestra di Bartók, capolavoro assoluto del 900 sinfonico, epopea «di brividi, di sussurri e di fosforescenze orchestrali» (così Massimo Mila), che richiede il massimo controllo direttoriale negli equilibri interni delle sezioni, così come il necessario abbandono espressivo, onde farne rivivere la particolarissima organizzazione formale e i gesti poetici di volta in volta elegiaci, umoristici, trionfali. Una missione compiuta senz’altro. Particolarmente riuscito è parso il fugato del primo movimento, grazie al virtuosismo dei tromboni e delle trombe, e quindi dei corni che ne invertono il tema principale: in questo caso il problema esecutivo è non tanto relativo alle linee contrappuntistiche in sé, quanto all’esigenza dell’unisono dei corni di pareggiare lo spessore dinamico di una tromba e di un trombone. Ma orchestra e direttore sono riusciti in maniera egregia a donare la giusta trasparenza nella tornitura dei suoni, così che l’effetto di accumulo è riuscito ad un tempo energico ma limpido, esaltando l’originalità del suono concepito da Bartók. Analoga ottima realizzazione per esempio nel quinto movimento, nel passaggio con i violini secondi divisi, con arco alla punta: in questo caso, lo schiarirsi della linea melodica ha prodotto un effetto molto suggestivo di delicatezza, di lirismo intenso, a sottolineare l’arte bartokiana del diagramma espressivo mobilissimo, che lo stesso compositore indicava come «transizione graduale». Che nella macrostruttura del brano in argomento, poi, si articola nel progressivo trapasso dal rigore del primo movimento, alla vitalità del finale, attraverso stazioni intermedie di discesa e risalita: ed esattamente nel far udire questa dimensione eminentemente narrativa del suono messo in forma concentrica, con una polifonia trascendentale resa con nitore cristallino anche nei passaggi esecutivamente più ostici, i Wiener Symphoniker e Popelka si sono segnalati per intelligenza di approccio e altissima competenza interpretativa. Vivissimo successo, e due bis all’insegna del valzer, con una Frühlingstimme, in particolare,cesellata nei fraseggi secondo la migliore tradizione idiomatica viennese, dei Walter, dei Krauss, dei Boskovsky, dei Kleiber, dei Karajan: quella che piano piano si sta perdendo, anche (o soprattutto) nel concerto di Capodanno…


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