L'invenzione del barocco
di Roberta Pedrotti
Ultima tappa a Ravenna per la coproduzione partita dal Monteverdi Festival di Cremona della più nota opera veneziana del XVII secolo. Uno spettacolo accattivante e ben realizzato, che reinventa un'immagine ideale fra le questioni legate al reale autore delle musiche, l'eleganza sincretica dell'allestimento di Pierluigi Pizzi e la ricreazione sonora del concertatore Antonio Greco.
RAVENNA 21 gennaio 2024 - Il nome di Monteverdi campeggia ovunque e sembra aleggi una sorta di pudore nell'ammettere che, sì, L'incoronazione di Poppea comprende musica di più autori, vide il coinvolgimento di diversi rampanti allievi del Divin Claudio, mentre si vuol sottolineare che, insomma, alla fine è opera sua, o almeno soprattutto sua. Eppure, i nomi che emergono dagli studi fra gli autori di musiche per l'eccelso libretto di Busenello non sono esattamente quelli di dimenticabili garzoncelli da bottega: c'è Benedetto Ferrari, c'è Francesco Sacrati, c'è Filiberto Laurenzi, c'è Francesco Cavalli. Forse il nome di quest'ultimo risulta un po' più familiare ai contemporanei italiani, se non altro per il gran successo della Calisto lo scorso anno alla scala; tuttavia, ancora non basta per rendere appetibili in locandina i nomi degli operisti della prima grande stagione pubblica del melodramma dopo gli albori nelle corti e nelle accademie. Resta, invece, intatta l'attrattiva mitica dell'autore del primo grande capolavoro, l'Orfeo, che ormai anziano e con un bell'impiego come maestro di cappella in San Marco continuava ad avere a che fare con il teatro, ma per lo più come punto di riferimento e padre nobile con la collaborazione dei giovani emergenti. Evidentemente, punto di riferimento e padre nobile lo è ancor oggi, simbolo stesso e garanzia di qualità dell'opera del Seicento: il suo nome a caratteri cubitali fa breccia e riempie i teatri anche se poi di musica senza alcun dubbio sua non ne sentiremo forse moltissima. La buona notizia è, però, che almeno, se Sacrati o Laurenzi restano ancora oggetto d'attenzioni di una cerchia ridottissima, il Teatro Alighieri è davvero pieno, il pubblico eterogeneo per anagrafe e provenienza ma compatto per attenzione ed entusiasmo finale.
È questo, d'altra parte, uno spettacolo nato per piacere e che ha viaggiato in otto mesi dai teatri lombardi a Pisa e, ora, Ravenna. Piace, e non potrebbe essere altrimenti, il libretto di Gian Francesco Busenello, uno di quei capolavori che andrebbero inseriti d'obbligo nei programmi scolastici. Seppure secentesco e poetico, l'italiano è talmente bello e fluido da risultare chiaro anche ai contemporanei, l'azione è varia, chiara e fluida pur nell'articolazione dell'intreccio, il godimento può essere immediato, ma non si smetterebbe mai di rilevar finezze, sottintesi, allusioni, doppi sensi o metafore. Per esempio, si celebra una visione libertina, amorale del mondo, dove la virtù pura non esiste e anche chi la dovrebbe incarnare (Ottavia, Drusilla, Seneca) o non si tira indietro di fronte a complotti omicidi o cade vittima di una razionalità estrema quanto ininfluente. Ma se il senso e la spregiudicata libertà trionfano senza ravvedimenti o giustificazioni etiche, è pure un atto di spregio e condanna che la Serenissima Repubblica rivolge alle monarchie circostanti, in particolare al papato romano, dove scienziati e filosofi che a Venezia potevano trovare asilo vengono invece processati dall'Inquisizione. Insomma, se anche Amore (o, meglio, i sensi) e Fortuna reggono il mondo, gli arbitri e le infide trame che accompagnano i poteri assoluti sono da condannare, mentre la Laguna di bea di aver trovato l'antidoto nel suo complicatissimo ordinamento. Un libretto talmente attuale al suo tempo da esserlo pure nei secoli successivi.
Piace molto anche lo spettacolo firmato al solito in toto dall'eterno Pierluigi Pizzi, per il quale il tempo, se scorre, scorre all'indietro. Dopo la produzione del 2010 al Teatro Real di Madrid, torna alla corte di Nerone ribadendo con forza ancor maggiore il suo credo estetico: mentre per Graham Vick un principio poetico del teatro era riconoscere che “la vita è sporco”, per Pizzi sulla scena l'arte sublima la vita in bellezza. Non è una ricostruzione storica, la sua, bensì una ricreazione ideale, un'armonia di elementi della Roma imperiale e dell'età barocca, ma anche contemporanei: oro e nero, capitelli corinzi e sfere, fluttuanti drappeggi e pantaloni in pelle, abiti da sera dorati e farsetti dalle fantasie che a un primo sguardo sembrano damascate e poi si rivelano disegni modernissimi. Così, nell'azione, tutte le sfumature del testo sono presenti e filtrate nella composizione visiva: per esempio la sensualissima Poppea cura sempre la posizione delle gambe, il collo del piede ben arcuato a sottolineare la linea in maniera quasi innaturale, ma sinuosa e più che coerente con il piano per soddisfare le proprie ambizioni.
Anche la concertazione di Antonio Greco si presenta con tutti i crismi più accattivanti: consolidata esperienza nel repertorio, cura certosina di stampo madrigalistico, ricchezza timbrica dell'ottimo ensemble strumentale e cast d'alto livello. Forte di questi elementi, come Pizzi reinventa un'estetica sincretica e armoniosa, così reinventa un barocco musicale più vero del vero, percepito, cioè, come vivida realizzazione di ciò che l'immaginario contemporaneo si prefigura. D'altra parte, anche se avessimo una macchina del tempo che ci catapultasse nel 1643 saremmo sempre noi, uomini e donne del XXI secolo in gita in un altro mondo. L'importante è essere consapevoli: ogni interpretazione di un testo, soprattutto di un testo lontano nel tempo, se aspira a leggerne un'autenticità, non può comunque prescindere dal filtro del contemporaneo. Il che, in questo caso, significa avere filologica contezza del nodo costituito dai due manoscritti, quello veneziano e quello napoletano, e scegliere di seguire il primo nel canto mutuando i ritornelli strumentali dal secondo, ma anche di ampliare l'organico (per i ritornelli partenopei dal quattro a cinque voci) con una ricchezza timbrica che suona, appunto, “barocca” ai nostri orecchi, sebbene ai tempi le orchestre fossero giocoforza smilze e strumenti come il cornetto si sentissero in chiesa più che in teatro. Così, come si diceva poc'anzi, la cura quasi calligrafica dell'ornamentazione espressiva sembra ammiccare a una maggiore affinità al gioco intimo e prezioso del madrigale rispetto alle proporzioni più ampie e immediate dell'eloquio teatrale. Va da sé che essendo Greco un ottimo musicista a capo di un'impeccabile Orchestra Monteverdi Festival – Cremona Antiqua e con un cast di agguerriti specialisti, il risultato è confezionato al meglio.
Piace, infatti, pure la compagnia di canto che si raduna intorno alla splendida Poppea, dal canto sinuoso e levigato come le sue movenze, di Roberta Mameli. Le bizze sopranili del capriccioso Nerone impersonato da Federico Fiorio hanno il loro contraltare nella severità tormentata del contraltista Enrico Torre, mentre Candida Guida (Arnalta) e Danilo Pastore (Nutrice) delineano in maniera incisiva due figure speculari: la prima, dopo aver invano consigliato prudenza all'ambiziosa Poppea, gode i frutti della spregiudicata ascesa; la seconda, che viceversa proponeva a Ottavia di abbandonarsi a meno virtuosi piaceri, ne accompagna la rovina. Chiara Nicastro è una determinata Drusilla e Federico Domenico Eraldo Sacchi incarna bene il rigore sereno di Seneca, cui succede come intellettuale di corte il prestante e lascivo Lucano di Luigi Morassi, dal bel timbro baritenorile. Nello stuolo di divinità, soldati, famigliari, tribuni e littori si distingue la presenza lussuosa di Mauro Borgioni, ben affiancato da Luca Cervoni. La coppia Damigella/Valletto (personaggio qui indistinguibile da Amore) è interpretata da Paola Valentina Molinari e Giorgia Sorichetti, mentre Francesca Boncompagni completa il cast come Venere e Fortuna.
Teatro pieno, lunghi applausi: la ricreazione del barocco ha sedotto il pubblico.