L'ombra di Macbeth
di Roberta Pedrotti
Nella nuova produzione di Macbeth al Comunale Nouveau appare per molti versi irrisolta. Spicca come momento migliore della serata la bella prova del coro e di un ispirato Daniel Oren in "Patria oppressa".
BOLOGNA, 16 aprile 2024 - “Patria oppressa”, parole di desolante attualità per il momento più alto di questa nuova produzione bolognese di Macbeth. Se Alberto Malazzi era rimasto solo pochi mesi prima di trasferirsi alla Scala, il coro del Comunale è passato in buone mani con la maestra Gea Garatti Ansini, con Alhambra Superchi preparatrice delle voci bianche. Gli interventi solistici di Sandro Pucci e Chiara Salentino (prima e seconda apparizione, dalle file del coro) e Benedetta Zanetti Oliva (terza apparizione, dalle voci bianche) non sono che il coronamento di una bella prova collettiva che va dall'efficacia delle streghe libere da stridìi grotteschi al pianissimo denso e ricco di sfumature di profughi scozzesi. Qui anche Daniel Oren trova la massima ispirazione declinando in un intensissimo sussurro il dolore profondo, la nostalgia e il lutto: senz'altro il momento più affine alla sensibilità di un direttore che ha fatto di Nabucco il suo cavallo di battaglia. Non altrettanto si può dire dell'intera opera, talmente fosca e negativa, priva d'amore e tenerezza (se non, appunto, nel doloroso lamento del quarto atto) da sbarrare la strada al pathos connaturato all'estroverso gesto oreniano. E a proposito dell'assenza d'amore caratteristica di Macbeth, spiace che ancora si sia contravvenuto alla volontà di Verdi e si sia mantenuto il tradizionale “Pietà, rispetto, amore” rispetto al ben più sensato “Pietà, rispetto, onore” dell'autografo: il protagonista è un valoroso generale che si è macchiato dei peggiori tradimenti per ambizione e la lezione verdiana risulta perfettamente in linea con il carattere del personaggio a differenza di quella più sentimentale entrata nell'uso. Altra scelta testuale che spiace è il taglio dei magnifici ballabili del terzo atto, ma alla luce dell'esito teatrale della nuova produzione bolognese, forse non è stato poi gran male. Il debutto alla regia lirica di Jacopo Gassmann è parso a dir poco interlocutorio nella sua ansia di accumulare composizioni visive come citazioni erudite, da Caravaggio a Pistoletto, ma irrelate come effetti senza causa fini a sé stessi in un dinamismo à la Bob Wilson. Anzi, talvolta l'assenza di un chiaro disegno concettuale realizzato con forza e coerenza scivola anche nel comico involontario quando il servo presenta alla Lady il pugnale su un vassoio d'argento (inevitabile commentare che “allora il colpevole è il maggiordomo!”), quando Malcom invita i rivoltosi a impugnare i rami della foresta di Birnam indicando un unico tronco rinsecchito, o quando, alla notizia che l'avversario non è nato da donna, Macbeth gli volta sereno le spalle e se ne va per poi ripresentarsi in controluce sugli ultimi accordi (idea, quest'ultima, anche significativa, ma tanto goffa nella preparazione). La definizione dei personaggi risulta, per di più, alquanto approssimativa, con una Lady stranamente passiva, al punto da chiedersi come sia venuto in mente a Macbeth di assassinare Duncano, per non dire del tono candido e stupito con cui constata la mortalità di Banco e dei suoi figli, invece di sottolineare il concetto con serpentina intenzione. In effetti, Ekaterina Semenchuk dopo una lettura della lettera caricata alla maniera delle più triviali Adriane nel monologo di Fedra, sembra non avere altra preoccupazione che mostrare il tonnellaggio e il colore scuro della sua natura mezzosopranile, senza badar troppo alla quadratura musicale. Quest'ultimo problema è condiviso con il vigoroso e senz'altro coinvolto Macbeth di Roman Burdenko, tanto da costringere Oren a gesti persino più plateali del solito per richiamarli all'ordine nei duetti (e con scarsa fortuna in “Ora di morte e di vendetta”). Non si potrà, allora, biasimare troppo il concertatore se la cura che indubbiamente pone in tanti dettagli, come nella gestione non scontata della scena del banchetto, non raggiunga la compiutezza e la suggestione della sua recente Luisa Miller sempre a Bologna [Bologna, Luisa Miller, 8-9/06/2022], mancando invece spesso di tensione e continuità drammatica. Curioso, poi, che se in più punti Oren tende ad alleggerire, controllare, assottigliare, in “Ondine e silfidi” perda l'occasione della delicatezza mendelssohniana ben suggerita da Verdi.
Se la coppia principale è un po' indisciplinata, per quanto robusta, soddisfazioni maggiori vengono dal resto della compagnia. In particolare Antonio Poli è un ottimo Macduff, sempre timbrato, nitido e ben controllato nel suo canto, anche quando Oren pare sollecitare uno slancio un po' brusco su “Trarmi al tiranno in faccia”. Riccardo Fassi patisce talora una certa mancanza di spessore in basso, ma è un Banco d'ottimo gusto e Marco Miglietta un impeccabile Malcom. Completano il cast con apprezzabili risultati Anna Cimmarrusti (la Dama), Gabriele Ribis (il Domestico, il Sicario e l'Araldo) e Kwangsik Park (il Medico).
Alla fine, applausi per tutti, anche se nel pubblico si sente sussurrare più di un moto di perplessità per la mancanza di tensione musicale e teatrale. Che, lo ripetiamo, non risiede nell'epoca di riferimento di scene e costumi, nel volume delle voci o negli acuti, ma nella profondità del lavoro con regia e concertazione.