Rossini dalla soffitta
di Sergio Albertini
Nato "in casa" per il repertorio del Teatro Regio di Torino, l'allestimento dell'Italiana in Algeri risulta troppo ingenuo e datato nella ripresa cagliaritana, che non convince del tutto nemmeno nella resa del cast.
CAGLIARI, 12 maggio 2024 - Quando, nel marzo del 2009, a Torino nacque l'allestimento dell'Italiana in Algeri in scena al Teatro Lirico di Cagliari per la (mini)stagione 2024 (e prima ripresa a Racconigi nel 2013, ancora al Regio, poi al Liceu di Barcelona nel 2018, di nuovo al Regio nel maggio 2019) si trattò di un'opera realizzata tutta dalle maestranze interne del teatro. Il regista, Vittorio Borelli, era il primo direttore di palcoscenico, mentre le scene erano a firma di Claudia Boasso, responsabile del settore realizzazione allestimenti. Il Lirico di Cagliari, tra le opzioni possibili per L'Italiana in Algeri, sceglie questo allestimento; didascalico, come oramai è difficile vederne nei grandi teatri, senza un briciolo di invenzione, con pochi veri movimenti, nel solco di una tradizione che si sperava relegata in soffitta. Certo, Borrelli conserva in un certo senso il 'rispetto' al libretto di Angelo Anelli, in questo aiutato e sostenuto fortemente dalle dinamiche scene che cambiano a sipario aperto e che evocano l'esotismo di maniera, che tanto rassicura il pubblico cagliaritano, oramai disabituato ad altre forme di teatro. C'è proprio quello che ti aspetti in una Italiana in Algeri: le grate a volontà, piccole finestrelle che si aprono e chiudono nei praticabili, la vasca da bagno (divertente l'effetto schiuma). Insomma Ponnelle, e non solo lui, sono in qualche modo nella memoria di Borrelli e Boasso. Una regia che perde spesso la concentrazione, che colleziona un bric-a-brac di trovate senza un vero senso drammaturgico (i nuotatori sullo sfondo inseguiti da uno squalo, il loro ritorno su una tavola da windsurf, le movenze da velina danzerecca di Zulma – e dire che l'interprete Alessandra Della Croce è pure diplomata in danza contemporanea – una orrenda caduta di gusto nel tentativo di Mustafà di costringere la mano di Isabella a dirigersi verso le proprie “parti basse”, i carrelli con relativo secchio e mocio, gli sgrassatori a spruzzo per ripulire i pavimenti, la cucina a vista in cui un cuoco simil Cannavacciuolo prepara per davvero degli spaghetti). Forse il peggio della regia di Borrelli si rivela nel momento più atteso, quel finale del primo atto che, pagato il debito con la ritmicità dei gesti, si trasforma in una deriva caotica con tuffi sul grande cuscino di tre metri per tre. Spettacolo nato già vecchio, e invecchiato male. Che tuttavia pare piacere (c'erano dubbi ?) al pubblico cagliaritano. Sulle scene di Claudia Boasso si è accennato: solito esotismo da maniera, un mare luccicante sul fondo, un tondo sole arancione che si fa tonda luna bianca, pedane mobili, nessun guizzo d'originalità, buon mestiere. Santuzza Calì ha fatto di meglio; anche qui un oriente posticcio da provincia, ciabattine in spugna da hotel per un bagno turco versione spa, tanto Rossini didascalico di cui non si sente più il bisogno.
Il direttore, Massimo Zanetti, organizza un accompagnamento strumentale quasi millimetrico, disegnato in una atmosfera cameristica, eterea, dove ogni prima parte (quell'oboe nella Sinfonia!) ricama realizzazioni musicali quasi astratte, anche per certi tempi sospesi, se non dilatati. Zanetti restituisce al suo Rossini una elasticità ritmica di sospesa eleganza, ricercata; la sua misura e la sua precisione aiutano la scena, le voci pattinano con comodità anche sui forte. Voci sicuramente non perfettamente bene assortite: senza carisma il Mustafà, vero e proprio co-protagonista dell'opera di Fabrizio Beggi. Voce potente, la sua, d'ampio volume, ma pure 'selvaggia', esagitata più che esagerata, che carica oltre misura il suo personaggio, a scapito di una linea di canto che la Rossini Renaissance avrebbe riaffermato da tempo.
La parte di Lindoro si addice ad Antonino Siragusa, ed è cosa nota; il registro acuto, molto sollecitato nella prima cavatina, è sicuro, e la coloratura, gli abbellimenti, le variazioni sono di grande scuola; il canto sillabico veloce nel duetto con Mustafà impeccabile, il dialogo con l'oboe nella seconda aria mette a confronto, come sempre purtroppo, una tecnica impeccabile con un timbro infelice.
Pessimo Taddeo, che offriva, più di accenti buffi, quasi uno Sprechgesang. Bruno Taddia non ha alcuna sobrietà interpretativa, scambia la comicità per petulanza, e – non aiutato dalla regia di Borrelli – trasforma Taddeo in una macchietta da avanspettacolo, con un eccesso di mossette ferme ancora al Michel Serrault della Cage aux folles.
Non è un'Isabella seducente, quella di Teresa Iervolino, sebbene il ruolo le appartenga oramai da molti anni (il suo debutto nel mondo dell'opera avvenne proprio con l'Italiana al Ravenna Festival, e ha portato poi il personaggio a Palermo, a Nancy, a Beaune). La Iervolino ha un legato di buona scuola, una linea di canto che evita l'affondo nel registro grave; l'imprerssione è tuttavia che la voce sembri artificialmente inscurita, l'emissione all'indietro rende a volte il suono impercettibilmente ingolato. Avendo assistito all'ultima recita, resta il dubbio che abbia influito la stanchezza.
Tre giovani cantanti sono affidati i ruoli minori di Haly, Elvira e Zulma; e sono a di rpoco egregi. Chiara Notarnicola (Elvira) svetta col suo registro acuto sicuro e luminoso; Alessandra Della Croce, nel piccolo ruolo di Zulma, ha modo di mostrare una piacevole disinvoltura scenica; ma soprattutto Alberto Petricca (Haly), nel suo 'Le femmine d'Italia', dà prova d'aver ben compreso come cantare questo repertorio.
Il coro, impeccabile, era preparato da Mirca Rosciani, qui al suo debutto cagliaritano.
Ultima recita, pubblico entusiasta. Rossini sopravvive a tutto.
12 maggio 2024