Diaspora. Identità e dialogo
di Andrea R. G. Pedrotti
La Giornata europea della cultura ebraica offre anche quest'anno importanti spunti di riflessione. Il tema per il 2017 è la "Diaspora", fra identità e dialogo.
VERONA, 10 settembre 2017 - Lo scorso 10 settembre 2017, la Giornata europea della cultura ebraica è stata dedicata al tema della “Diaspora”. Si tratta di un argomento che, purtroppo, ha caratterizzato tutta l’esistenza del popolo d’Israele, il quale, tuttavia, da questi forzati, continui, esilî dalla terra d’origine ha saputo trovar motivo di crescita intellettuale e, nella dispersione, una coesione ancor più solida. Città capofila era Palermo, città simbolica per l’Italia. Chi sia capitato di aggirarsi per le vie del ghetto del capoluogo siculo non avrà potuto esimersi dal notare le piccole targhe a indicare i nomi delle varie vie del quartiere ebraico. Su delle piccole tavolette cremisi le scritte appaiono in alfabeto latino, ebraico e arabo. Palermo, com’è noto, fu città influenzata notevolmente, nella cultura e nell’architettura, dalla presenza araba. Questi cartelli stradali mostrano come gli ebrei giunti nel sud Italia non abbandonarono la propria cultura, seppero apprendere dai popoli con cui entravano in contatto, rispettandoli senza opporsi loro, ma senza rinunziare mai alla propria dignità e alla propria identità.
È mai capitato di osservare le statue o le immagini di uno dei più grandi filosofi ebrei di tutti i tempi, Mosé Maimonide? L’abbigliamento e l’aspetto sono marcatamente arabeggianti, ma la sua opera più famosa, La guida dei perplessi (la cui prima stesura fu proprio in arabo) è ritenuta, a buon titolo, una delle più importanti opere filosofiche del mondo ebraico. Egli visse fra Spagna e nord-africa alla fine del XII secolo ed è, ancor oggi, punto di riferimento non solo teologico per molti.
Molti pensieri scorrono nella mente in questa giornata, fra i quali la toccante cerimonia di ricordo dei 500 anni dell’istituzione del primo ghetto, avvenuta a Venezia il 29 marzo 2016 [leggi]. Si riaccende la rimembranza di quanto accadde a una minoranza culturale a cui erano impedite numerose professioni. Ne erano consentite poche, fra le quali il commercio del denaro (che portava guadagno alla Repubblica veneziana e non agli ebrei), o l’arte medica, oggi ritenuta un mestiere capace di garantire una buona posizione sociale ed economica, mentre all'epoca consisteva in trattare, a proprio rischio con malati, cadaveri, esposti al rischio delle numerose epidemie. Un mestiere che i signori e gli uomini abbienti dell’epoca non avrebbero mai ritenuto alla loro altezza. Il divieto, successivo, di coltivare la terra può apparire un privilegio solo a chi non abbia studiato le condizioni di vita del passato, poiché era proprio il lavoro della terra a garantire la sopravvivenza, ben più alla portata per gli abitanti delle campagne, anziché per abitanti della città, figuriamoci di un ghetto. La capacità di adattamento nelle forzate diaspore (uno fra i pochi termini non di etimologia ebraica riferito ai discendenti di Abramo) d’ogni tempo fu, infatti, la forza di un popolo in grado di sopravvivere nei secoli, di inseguire costantemente la vita, consci di non poter mai raggiungere una soluzione, una sintesi compiuta, nell’ottica di un movimento continuo, come il seguirsi delle generazioni. Cambiano gli uomini, ma resta l’uomo.
Sabato 9 settembre, nel salone della Gran Guardia, si è avuta una piccola anteprima del giorno seguente, grazie a un'iniziativa dell'associazione Figli della Shoah e del Comune di Verona, con una conferenza tenuta dal professor Pier Angelo Carozzi dell’università di Verona e dalla storica Anna Foa dell’università La Sapienza di Roma, dal titolo “Oltre la Shoah: la diaspora e la cultura europea tra ‘800 e ‘900”. Quello che accadde negli ultimi centocinquanta anni ha avuto un valore emblematico per la storia degli ebrei: l’antisemitismo crescente della fine del XIX secolo, la comparsa del Sionismo per garantire la sopravvivenza, la Shoah, la diaspora dal nord-Africa, un percorso che, ancor più rispetto al passato, ha rappresentato una lotta che consentisse di non rinunciare alla propria identità culturale, con la differenza che non veniva più consentito il diritto all’abiura o alla conversione, come imposto dall’editto promulgato in Baviera nel 1843. La Shoah, infatti, non fu altro che l’apoteosi, il dramma, l’esplosione di un antisemitismo strisciante che con la Germania nazista si manifestò ancor più violento dell’inquisizione spagnola.
La comunità di Verona e Vicenza, come sempre, si è fatta trovare pronta con una serie di appuntamenti iniziati già alle dieci del mattino con il saluto del presidente della comunità e delle autorità, l’incontro con Rav Labi, all’interno della Sinagoga di via de’ Portici, dal titolo “Identità di un ebreo nella realtà quotidiana”, seguito da un incontro sui sapori della cucina “giudaica-veronese” (altra contaminazione culturale), un altro incontro con Anna Foa dal tema “Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento”. Senza dubbio una presenza di prestigio per la comunità di Verona, considerando gli studi e le copiose pubblicazioni prodotte dalla prof. Foa sui movimenti e sulla contestualizzazione storica degli ebrei nel XX secolo, attraverso numerose peripezie che ebbero a vivere e di cui si consiglia la lettura.
A chiusura, ancora una volta nella locale Sinagoga, un concerto klezmer di commiato e saluto al prossimo anno.
Un appuntamento che si ripete ogni anno a Verona per la giornata di cultura ebraica e dovrebbe essere irrinunciabile è la visita alla Sinagoga. Sicuramente il tempio scaligero è fra i più belli del nord Italia: osservandone l’architettura, tuttavia, può essere scambiato per una chiesa e verrebbe da chiedersi il perché. La risposta è all’interno: sull’ingresso è possibile trovare un piccolo tavolo dove un ragazzo è lesto a porgere una Kippah agli uomini che abbiano intenzione di entrare a capo scoperto. Una volta all'interno, fatta salva l’assenza dei canonici simboli del cristianesimo, le differenze strutturali rispetto a una chiesa possono apparire risibili. È qui che la guida dà la risposta: la Sinagoga doveva apparire come una chiesa e non come un tempio di culto differente. Difficile notare l’orientamento e impossibile, dall’esterno, assistere alla preghiera che si svolge all’interno il sabato. Una prova che, anche all’interno del ghetto (cioè in un luogo di residenza forzato), non era possibile professare il proprio culto liberamente, ma questo per gli ebrei conta relativamente. Era data la possibilità di pregare, il resto è solo un’apparenza, un’immagine e l’immagine non esiste per un ebreo. Conta tutto ciò che sta alle spalle, il percorso con cui si deve cercare una soluzione. L’immagine non ha senso perché sarebbe un’immagine finita. Ecco un’altra forza ebraica nella diaspora. Il simbolismo non conta.
Pensiamo in quest’ottica a una delle prime diaspore, ben prima dell’era volgare. Giacobbe e i suoi figli partono dalle terre del Giordano, per fuggire la carestia e raggiungere Giuseppe in Egitto. Molte traduzioni raccontano che gli ebrei vivevano nella condizione di schiavi sotto i faraoni. Questo è falso, gli ebrei in Egitto erano uomini liberi, ma, come altri, operai sottopagati, costretti a condizioni inumane nel nome del Faraone figlio di Ra. Non riconoscendo il monarca come divinità vivente figlia d’un’altra divinità più grande, essi non fecero altro che rivendicare i propri diritti e la propria dignità alla sopravvivenza. Come? Ovviamente col dialogo e col ragionamento. Non a caso la giornata del 10 settembre aveva il bellissimo titolo di “Diaspora. Identità e dialogo”. Un dramma (la diaspora), al quale segue una necessità (l’identità), attraverso un proposito di vita costruttivo (il dialogo).
Il ragionamento incessante, ininterrotto, solo quello salva l’uomo. Osservate un ebreo mentre prega: è forse fermo? Perché la testa non cessa mai dondolarsi? Credo che la risposta stia solo nella millenaria storia del pensiero ebraico e nella sua ossessiva interpretazione e analisi di ogni aspetto della vita.