L'ultimo desiderio di Luciano
di Roberta Pedrotti
Il film documentario di Ron Howard delude profondamente e non tanto per il punto di vista scelto, quanto per la superficialità con cui viene trattato, sprecando un'occasione fra banalizzazioni, errori e omissioni.
Quando il film uscì, l'accoglienza italiana, per lo meno fra i frequentatori dei teatri d'opera, non fu delle migliori. Non avendolo ancora visto, francamente, sebbene molte critiche ben fondate venissero da chi Pavarotti l'aveva conosciuto assai bene, in cuor mio tendevo a ridimensionare le accuse: il tenore modenese è stato un personaggio immenso, che può essere legittimamente raccontato da diversi punti di vista, ed è logico che tanto più si conosce la sua attività artistica quanto più si soffriranno le omissioni pur legittime in un prodotto di durata contenuta e destinato a un pubblico generalista. Pensavo, inoltre, che Ron Howard è un regista che sa il fatto suo: magari le pellicole ispirate a Dan Brown non saranno il mio ideale cinematografico, ma non si può dire che non conosca il mestiere, né potrei negare che Apollo 13 o A beautiful Mind non mi siano parsi buoni film, o che da bambina non mi sia divertita con Splash! Una sirena a Manhattan.
Insomma, conscia del fatto che il mio animo melomane avrebbe senz'altro trovato di che patire, quando Pavarotti è stato trasmesso da Rai1 in prima visione tv mi sono messa davanti allo schermo con curiosità e la miglior disposizione d'animo possibile.
Così, ho inizialmente accettato l'impronta marcatissima a stelle e strisce, una prospettiva pop (non solo nel senso di popular music) così diversa da quella che possiamo avere noi italiani e appassionati d'opera pensando a Pavarotti. Dopotutto, mi sono detta, se è diventato un'icona universale, può anche essere interessante osservare come questa icona viene vista e raccontata da un regista hollywoodiano della più bell'acqua.
L'interesse, però, naufraga presto nella desolazione. Non si racconta il Pavarotti tenore, se non con qualche riferimento esile e sommario (La bohème del debutto, un'altra al Met, L'elisir d'amore, Tosca), ma anche l'uomo non ne esce bene. Appassionato di canto – ma non si apisce se, come, dove e quando l'abbia studiato – arriva finalmente in America dove una serie di impresari spregiudicati lo portano al successo esibendolo – sembra la storia del Circo Barnum – fra casinò per riccastri alla JR e platee di rednecks e coltivatori di mais. Nel frattempo la voce comincerebbe a declinare, ma uno dei vari impresari (si badi bene, sempre stranieri, come se non avesse avuto importanti manager italiani con la Stage Door - poi Prima International - fondata proprio dalla moglie Adua e come se i concerti dei Tre Tenori non fossero stati inventati da Mario Dradi) lo traghetta nel mondo dei grandi eventi e del pop. Insomma, una visione un po' superficiale e schematica, nella quale le testimonianze relative a quanto fosse bella la sua voce e comunicativo il suo canto galleggiano in un vuoto in cui quasi non esistono né la Scala né teatri che non siano il Metropolitan o le tournée cinesi e in cui Pavarotti canta da solo (in un estratto di un'intervista è lui stesso a citare Joan Sutherland, mentre la sorella di latte Mirella Freni è cancellata dall'esistenza) finché non incontra Domingo, Carreras e Mehta a Caracalla: evidentemente l'unico direttore e gli unici altri cantanti sulla piazza, dato che gli altri intervistati (Carol Vaness, Angela Georghiou, Vittorio Grigolo) ribadiscono solo genericamente quanto fosse bella la sua voce. Anzi, no, un'altra cantante c'è: si chiama Madelyn René e la sua lunga relazione con il tenore modenese è ben nota alle cronache, non c'è motivo per nasconderla. Non c'è, però, nemmeno una buona ragione per insistere tanto sulla sua presenza, che quasi soverchia le mogli Adua e Nicoletta, in una vaga atmosfera pettegola da soap opera, con l'epilogo melodrammatico dell'ex amante che torna al capezzale dell'amato morente.
Curioso: tanto lontano dal mondo dell'opera, il film di Howard, e così ostentatamente, hollywoodianamente melodrammatico, ma d'un melodrammatico assai patinato. La storia di un simpatico pupazzone dalla voce e dal cuore d'oro, un bonaccione quasi inconsapevole che viene trascinato qua e là da amori e successo. Forse, della figura di Luciano Pavarotti, si poteva dire di più, non limitarsi a elencare begli aggettivi, etichette che nulla raccontano di un uomo, di un artista, delle passioni e dei drammi.
Anche in virtù del suo nome, quel che Ron Howard è riuscito a ottenere, per un racconto a più voci che potrebbe stare in qualunque documentario di Focus, è sicuramente una mole di materiale considerevole e preziosa: fotografie e filmati inediti, soprattutto privati, che avrebbero potuto essere ben altrimenti valorizzati. Invece, fanno da sfondo, solo da sfondo, non assurgono come protagonisti per far emergere, se non il tenore, l'uomo dietro l'icona – o quantomeno lo spessore e l'unicità di quell'icona.
“Voglio essere ricordato come cantante d'opera” avrebbe chiesto Luciano Pavarotti nei suoi ultimi giorni. Di certo, è impossibile ricordarlo in un modo solo, lui che tanto ha vissuto, tuttavia sarebbe opportuno tener conto di questo suo legame con la musica e il teatro, fondamentale per comprenderlo anche come uomo al centro del fenomeno mediatico. E invece, non solo si omettono persone (il fatto che una lunga intervista a Leone Magiera sia stata cestinata nel montaggio mentre Bono Vox diventa un esegeta del canto lirico la dice lunga), colleghi, teatri, personaggi, titoli e compositori, ma si forza anche la realtà dei fatti per farla stare nel racconto di quello che dovrebbe essere un documentario, ma che sembra più un docureality, un prodotto televisivo industriale, per di più mal adattato in italiano, che non dice nulla di nuovo e interessante su Pavarotti, né espone un punto di vista. Anzi, quel poco che dice, manda fuori strada.