GRANDE VIOLENZA E GRANDE DOLCEZZA
INTERVISTA A EMMA DANTE di Walter Vitale
Un dittico per nulla usuale che affianca due opere stilisticamente differenti: c’è un filo conduttore nella sua messa in scena?
Sono due opere che, a mio parere, insieme stanno benissimo perché raccontano sostanzialmente la stessa cosa: l’abbandono di una donna, la solitudine determinata da un’impostazione fortemente maschilista. Anche se il tema le unisce, ho pensato a due messe in scena autonome, ma questo filo che le accomuna sarà comunque evidente nei due finali dal tragico epilogo.
La figura della donna abbandonata nell’opera è per lei una nuova sfida: un dolore contemporaneo che si sviluppa in una situazione intima e che si contrappone a un dolore più tradizionale in una dimensione collettiva. Sono due contesti praticamente opposti: uno è la sofferenza della donna borghese, che ho immaginato afflitta dalla pazzia d’amore – tema che mi affascina particolarmente e con il quale è stato davvero interessante confrontarsi; le proiezioni interiori della protagonista saranno il modo per entrare nella sua psiche, in un racconto personale, profondamente intimo, spogliato della sua rappresentatività. Dall’altra parte troviamo invece Santuzza, donna del proletariato, il cui dolore è sì personale ma in una dimensione “popolana”: cambiano le cerimonie, i modi di esprimere questo dolore. Entrambe le donne sono però vittime della stessa situazione ed è interessante il confronto fra queste realtà.
Nell’opera di Poulenc un ruolo fondamentale lo ricopre un mezzo di comunicazione che ai tempi della stesura del soggetto di Cocteau non era accessibile a tutti. Il telefono (e le sue evoluzioni) oggi è invece parte integrante nella gestione dei rapporti umani. Qual è il ruolo di questo oggetto, nella sua regia, in relazione alla protagonista?
Il telefono sarà certamente presente: all’inizio si avrà l’impressione che tutto si svolga all’interno di una stanza di albergo ma, col progredire dell’azione, ci si renderà conto che l’ambiente è quello di un ospedale. Non è quindi il classico telefono col quale si conversa, ma un oggetto che perde il suo normale impiego perché collegato con una linea interna che la protagonista usa per rivolgersi all’ex amante. È un modo per dar voce ai pensieri della sua mente, dall’altra parte della cornetta, infatti, non c’è nessuno. Sarà quindi il mezzo attraverso cui lo spettatore conoscerà ed entrerà in contatto con lo stato d’animo di una donna che è letteralmente pazza d’amore. Per mettere in scena tutto ciò è stato importante poter lavorare con una grande artista come Anna Caterina Antonacci con la quale si è instaurata un’ottima intesa e un positivo confronto.
Cavalleria rusticana è l’opera che più racconta l’immaginario siciliano: nella sua regia ha assecondato questa aspettativa del pubblico?
Quella che viene raccontata in Cavalleria è una Sicilia da cartolina, uno di quei souvenir che giocano sugli stereotipi cari ancora a qualche turista. La Sicilia non è più così: è una terra profondamente differente e le dinamiche del rapporto tra Turiddu e Santuzza oggi si possono trovare in Sicilia così come in tanti altri luoghi d’Italia in cui persiste questo genere di retaggio culturale. In tal senso è stato davvero difficile confrontarsi col tema perché la mia terra non è quella che l’opera richiede sia raccontata; ho scelto quindi di non dare una lettura contraria alla tradizione mantenendo i colori del sud, che comprendono per esempio l’oscurità dei veli neri o la presenza dei crocifissi nelle processioni religiose ma senza alcun connotato oleografico. Intendo narrare il rapporto tra l’anima siciliana e il sacro, la compresenza della vita profana con quella religiosa, e l’oppressione della donna, e sicuramente non l’aspetto folkloristico dato dalle coppole e dalle lupare.
Una delle sue cifre stilistiche è data dal gruppo di attori della sua compagnia teatrale che l’ha seguita in ogni produzione e ha sempre avuto un ruolo risolutivo in tante scene difficili: come agiranno in queste due opere?
A Pavia lavorano con me sei attori che nellaV oix humaine saranno le proiezioni mentali della protagonista, i fantasmi che si aggirano nella stanza in cui è ricoverata e che sarà affollata da queste figure: il fatto che sia un’opera più intima mi ha portato a elaborare una regia che si discosta dalle mie precedenti in cui ho fatto riferimento a un gruppo di attori più ampio. Cavalleria rusticana invece è l’esasperazione del cerimoniale: oltre ai sei attori della mia compagnia sono coinvolti anche altri, tra cui gli allievi della Scuola di Teatro della Fondazione Fraschini e dell’Università degli Studi di Pavia, molto preziosi perché si stanno concentrando sul progetto con grande partecipazione e grazie a loro rappresenterò il popolo, gli uomini che affiancano Alfio e le donne del paese.