Trois chansons de Roland
di Stefano Ceccarelli
Il Teatro dell’Opera di Roma omaggia ancora una volta uno dei più grandi coreografi del XX secolo: Roland Petit. La serata racchiude tre suoi capolavori: L’Arlésienne, creata per Marsiglia nel 1974, in una serata omaggio a Bizet in cui compariva anche Carmen, che chiude l'oggidiana serata e la cui première però si ebbe tempo prima, a Londra nel 1949; a questi due lavori tratti da Bizet, si affianca uno dei suoi primi (1946), Le Jeune homme et la Mort. Un dittico bizetiano, dunque, che racchiude una perla fra le prime del parigino. L’opera di Roma vanta, fortunatamente, una lunga tradizione di riprese da Petit: anzi, proprio nel lontano 1967, faceva capolino a Roma (mai facile palco per le novità) proprio Le Jeune homme et la Mort. Nell’81 si ha per la prima volta il pas de deux da Carmen. Bisogna aspettare il ’92, però, per la prima ripresa romana de L’Arlésienne. Nel 2010 ritroviamo per la prima volta l’intera Carmen e L’Arlésienne assieme, come pure nel 2013. La serata è eccellente: il corpo di ballo e i solisti sono in ottima forma.
ROMA, 9 settembre 2017 – La liaison fra queste tre chanson, queste tre creazioni di Roland Petit è l’eros: un eros infelice, com’è sovente quello cantato in poesia. Il trittico è stato appositamente assemblato per questa ennesima serata romana in omaggio al genio di Roland Petit: e scorre benissimo, in perfetto equilibrio, quasi come se fosse stato appositamente così pensato.
Il primo quadro, la prima canzone di Roland, è L’Arlésienne (1974), su musiche di Bizet. Fin dalle coreografie che coinvolgono tutti i contadini si scorgono le geometriche e simboliche figurazioni che, col loro potere antropologico, sprigionano una sorta di potenza primordiale, che il ‘900 aveva (ri)scoperto anche grazie ai Ballets Russes. Si staglia una coppia di ballerini: sono Alessio Rezza, nel ruolo dell’infelice Frédéri e Rebecca Bianchi in quello della gioiosa Vivette. Frédéri ama la bella di Arles, destinata sposa a un altro, che nel balletto di Petit è un fantasma inesistente, quasi un ansioso parto della mente di Frédéri; Vivette è la promessa sposa del bel contadino, ben voluta da entrambe le famiglie, ma da lui non riamata. Nei loro brevi, franti pas de deux, sotto un’elegiacamente ispirata musica di Bizet, Rezza è espressivo nel rifiuto contrito della contadina, ove la Bianchi sembra quasi sperduta nel suo candore innocente, ignaro di una delusione d’amore. Rezza tenta di fuggire, ma i contadini, la ‘società’, lo respingono verso la sua scelta consorte. Tutto questo si svolge con l’azzeccato sfondo di un campo di grano di van Gogh – a rammentarci, nelle sue nette pennellate, la potenza della musica di Bizet, così popolarmente tagliente in alcune danze, e l’atmosfera arlesiana, provenzale – tramutato poi, con un rapido scendere di un enorme drappo, in una camera con una finestra centrale (le scene sono di René Allio; i costumi di Christine Laurent). Struggente la svestizione dei due fidanzati, nella loro prima notte di nozze: dopo un toccante passo a due, Rezza si lancia in un energico assolo, pieno di figurazioni disperate, prima di gettarsi dalla finestra di casa (come voleva la contadinesca novella di Daudet). Gli applausi sono calorosissimi per la coppia Rezza-Bianchi: Rezza riceve un apprezzamento particolare, soprattutto per l’espressività e l’energia promanata dall’ultima scena, con finale salto nel vuoto. Ma lode alla Bianchi per il candore con cui ha danzato. Il quadro coreografato si fa apprezzare per precisione, pulizia e rigore delle forme, nello stile tipicamente petitiano.
Il secondo canto, Le Jeune homme et la Mort, nacque da un’idea dell’amico Jean Cocteau e fu uno dei primi successi di Petit coreografo (1946). S’era appena usciti dal Secondo Conflitto; Petit voleva sperimentare, ma con una cupezza che è comprensibile all’alba di tanto orrore. La scena di morte per impiccagione al centro della coreografia non ha ancora perso, a più di mezzo secolo, la sua forza evocativa: sulla rete, peraltro, si trovano anche le immagini dei primi interpreti, Babilée e la Philippart, nonché la storica interpretazione (1966) di Zizi e Rudy Nureyev. Sotto la sapiente orchestrazione di Ottorino Respighi della Passacaglia e Tema fugato in do minore BWV 582 di Johann Sebastian Bach, Stéphane Bullion e Eleonora Abbagnato danzano nei ruoli, rispettivamente, de Le jeune homme e de la Mort. Bullion è intenso, virile, muscolare; teso e preciso (basti citare l’infilata di cabriole), anche troppo controllato rispetto a un’estetica di più rilasciato movimento che imperniava l’esecuzione della première (ancora godibile – scrivevo – in un video in rete). La Abbagnato danza con fatale espressività, inesorabile, ferina a tratti; quasi etera si avanza negli abiti della morte. La scena dell’impiccagione è meno forte di quella originale (con Babilée di spalle), ma egualmente scioccante. L’involarsi fra i mille comignoli di Parigi chiude una storia tristemente sartriana. Meritati gli applausi per la Abbagnato e Bullion.
Il trittico si conclude con la terza canzone, Carmen, ancora sulle musiche di Bizet, a chiudere a anello la serata, dono coreografico di Petit alla sua Zizi (1949). La rilettura di Petit vede Don José come un gentiluomo borghese che si perde per la femme fatale sigaraia. Le musiche operistiche vengono talvolta estrapolate dal contesto originale e risemantizzate, in un gioco di rimandi che si lascia pienamente apprezzare solo se si conosce il modello bizetiano. Le scene e i costumi di Antoni Clavé, quelli originali, sono ancora attualissimi, dopo più di mezzo secolo: indimenticabile il tocco di una pioggia di luci nel quadro della taverna di Lillas Pastia, inquietantemente popolato da donne mascherate, nel breve inizio; o la stanza di José, con quel letto sfatto, caldo. Natasha Kusch, prima ballerina ospite, danza nel ruolo della bella gitana: certamente apprezzabile, per linee, presenza, verve e ironia (una delle caratteristiche da non sottovalutare mai nel linguaggio petitiano), non raggiunge, però, la terrigna sensualità della creatrice del ruolo, Zizi Jeanmarie, nella Seguidilla; ma danza con trasporto il pas de deux del quadro della stanza di José e l’ultimo, fatale, di fronte all’arena di Siviglia. Michele Satriano è uno smagliante Don José: virile, agile, dall’ottima presenza scenica, danza un’apprezzabile Habanera, con precisione e sensualità; e si destreggia bene nei passi a due, soprattutto nel finale, nell’intensità del momento dell’omicidio. Eccellenti anche i comprimari e tutto il corpo di ballo, che dimostra la crescita, il duro lavoro: che ripaga sempre. Gli applausi sugellano un’ottima serata di danza, di cui Petit sarebbe certamente andato fiero.
foto Yasuko Kageyama