Arbitrî e falsi miti
di Roberta Pedrotti
Sulla scia della ripresa delle attività dei teatri dopo un lockdown popolato di opere in streaming e in tv, soprattutto la diretta Rai di Rigoletto ha risollevato il dibattito sulle regie liriche, che è uscito anche dai consueti canali frequentati da appassionati e addetti ai lavori. Un'occasione in più per riflettere su alcuni luoghi comuni, falsi miti, punti nodali e ricalibrare l'oggetto della discussione.
Leggi anche: Necessità e libertà del regista d'opera
Dopo mesi di chiusura forzata, pian piano, l'opera è tornata in scena, anche se ha dovuto reinventarsi luoghi, forme e modalità per adattarsi alla situazione, con sacrifici, ma anche dimostrando ancora una volta quando sia duttile e resistente il suo spirito vitale. Talora ci si è dovuti accontentare del compromesso di esecuzioni concertanti, talaltra si è potuto fare di più e si è visto un po' di tutto, sia nel coinvolgimento di risorse, sia nello stile degli spettacoli.
E proprio riguardo allo stile, all'iconografia, al tipo di inventiva messa in campo da chi riporta l'opera nella sua dimensione naturale – dal vivo – la ripresa dell'attività ha acceso nuovi dibattiti, anche risvegliando voci silenti e rimbalzando su testate non specializzate. La sensazione è che chi in tempi normali di attualità operistica non s'interessa moltissimo – o quantomeno non sente il bisogno di occuparsene pubblicamente – abbia improvvisamente scoperto un faro puntato sul teatro lirico contemporaneo. Non è un male, anzi, ma proprio per questo nel dibattito rischiano di spuntare luoghi comuni avulsi dalla realtà e che converrebbe chiarire per focalizzare meglio i nodi della questione; proprio per questo è bene discutere su questioni di principio che non vanno sottovalutate.
Un dibattito si è scatenato all'indomani del Rigoletto trasmesso in diretta dal Circo Massimo con la regia di Damiano Michieletto [leggi la recensione: Roma, Rigoletto, 20/07/2020] e si è svolto per lo più fra le pagine di Repubblica e Micromega, con le firme di Corrado Augias, Paolo Flores d'Arcais, Nicola Piovani, Enrico Malato, lo stesso Michieletto e Vittorio Emiliani. Dallo stesso Emiliani, insieme con il fratello Giovanni, è partito una sorta di manifesto/petizione che al momento circola privatamente via mail, ma il cui contenuto era già in buona parte reso pubblico proprio attraverso una lettera ad Augias.
I registi nuovi divi?
Fra i miti da sfatare che offuscano la discussione c'è innanzitutto quello del “recente divismo” dei registi.
Basterebbe ricordare che la prima opera ad essere presentata di fronte a un pubblico pagante, Andromeda di Ferrari e Manelli (Venezia, 1637) fu accompagnata dalla stampa promozionale di un libretto in cui si decantavano con dovizia di dettagli gli effetti scenici, i balletti, le meraviglie visive dello spettacolo e che il coregorafo e scenografo Giovan Battista Balbi fu poi invitato a Parigi per realizzare le danze nell'Orfeo di Luigi Rossi al Palais Royal (1647), con le scene questa volta progettate da un altro nome di richiamo: Giacomo Torelli. E la compagnia dei Febi armonici che a metà del XVII secolo portò l'opera a Napoli era diretta da Antonio Generoli, che era pittore di scene e “corego”, quindi curatore degli allestimenti scenici. Certo, non esisteva ancora la parola regista in senso moderno, come non esisteva nemmeno per il teatro di prosa, ma dedurre da questo che gli artefici della messa in scena non avessero importanza e che non vi fosse chi si occupava della dimensione strettamente teatrale sarebbe errato. Semmai si può constatare che nel sistema impresariale, in cui vanno in scena soprattutto titoli nuovi o comunque ampiamente rivisitati e rinnovati a seconda del pubblico e degli interpreti, ogni produzione fa storia a sé, viene spesso creata alla presenza di compositore e librettista, sicché l'interpretazione resta unica o quasi, il richiamo è dato dalla novità stessa del titolo e dalla presenza di un eventuale elemento di spicco. Lo vediamo nelle locandine antiche, in cui, per esempio, l'annuncio di un'opera nuova di Verdi o Rossini poteva, con il solo nome dell'autore, sopravanzare perfino l'interesse per il titolo stesso. Via via che, invece, si afferma un repertorio, le novità si riducono, agli impresari (interessati ad attirare pubblico al momento) succedono gli editori (interessati a pubblicare partiture che continuino a fruttare diritti per anni), allora la notizia non sarà più l'avere in cartellone La traviata o Il barbiere di Siviglia, ma chi (cantanti, direttori, scenografi, registi...) li interpreterà. Si potrà ben stigmatizzare il teatro che ometta informazioni importanti e releghi degli interpreti in un cantuccio della locandina a caratteri microscopici, ma non il fatto che si segnali chi si occupa della dimensione teatrale dell'opera, non del fatto che il regista sia considerato un elemento importante e che in certi casi possa esserlo molto, moltissimo. Non sarebbe nemmeno una novità... fin da quando l'opera è nata, il pubblico l'ha apprezzata e ha cominciato a comprare i biglietti spinto da quel che vedeva oltre che da quel che sentiva.
Eppure si sente ancora parlare di un presunto primato della musica. Ancora prima la musica e poi le parole? O peggio, prima la musica e poi il teatro? Senza la musica, certo, l'opera non esiste, ma anche senza teatro: la parola stessa “melodramma” fonde in un unico concetto il canto e l'azione (dramma in greco deriva proprio dal verbo δράω, drao, che significa agire, fare, e i padri dell'opera lo sapevano bene...). E, per fare solo un esempio, dedica una vita alla fusione indissolubile fra musica e teatro Verdi, che dichiara che le sue note “belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro sempre di darvi un senso”, che s'interessa a tutte le possibilità d'avanguardia nell'illuminotecnica e nella scenotecnica per gli effetti di alba, le apparizioni del Macbeth, la tomba di Aida e Radames, che scrive a Boito il 27 aprile 1891: «La Scala ha bisogno assoluto di un direttore di scena di molta capacità. Non vi è mai stato in quel teatro, ma le esigenze sceniche attuali lo domandano imperiosamente” e nella minuta della stessa lettera fa riferimento alla “scena così come verrebbe imposta da un Régisseur».
Insomma, comunque li si chiami, quali che siano le consuetudini in evoluzione nel corso dei decenni e dei secoli, figure che si occupano dell'aspetto teatrale, dello spettacolo d'opera sono sempre esistite e sono sempre state importanti, perché il teatro è elemento fondamentale dell'opera, imprescindibile.
Arbitrio e libertà
Un’opera lirica non è solo musica. I musicisti facevano riscrivere parti del libretto, e riscrivevano momenti dello spartito a partire dal libretto. Un’opera lirica è dunque il frutto della sinergia di musicista e librettista, co-autori.
Perciò, a meno di non stabilire che un’Opera lirica è solo musica, al regista non deve essere concesso maggior arbitrio verso il libretto di quanto ne sia concesso al direttore d’orchestra verso la musica. Ora ogni direttore ha ampio spazio per eccellere nell’interpretare, ma neppure a Toscanini è permesso di cambiare le note ad libitum, o di far suonare una parte per violini a delle cornamuse.
Lo scriveva in luglio Paolo Flores d'Arcais nella sua lettera a Corrado Augias sull'onda del Rigoletto romano (http://temi.repubblica.it/micromega-online/rigoletto-michieletto-flores-d-arcais-augias/)
Non possiamo che convenire sulla prima affermazione, anzi, ci parrebbe talmente ovvia che non dovrebbe nemmeno esser ribadita. Alla premessa, però, segue una conclusione che si presta a non pochi distinguo. In primo luogo parla di “arbitrî” che “non devono essere commessi”, quindi sottintende una condanna a priori di ciò che rientra nella definizione di arbitrio. Ma è legittimo stabilirlo in termini assoluti e preventivi e quindi censurare, imporre dei limiti all'interprete? No, l'arte non si può censurare, tantomeno preventivamente. La questione può farsi in qualche caso spinosa, ma di certo non può essere generalizzata. Senz'altro esistono competenze tecniche e culturali fondamentali, ogni interprete deve disporre di determinati strumenti, ma poi lo scopo a cui li indirizza, la chiave di lettura che sceglie, la prospettiva con cui dà vita al testo potranno essere valutati caso per caso, saranno oggetto di dibattito critico, potranno apparire libertà o arbitrî. Certo, la definizione di arbitrio comporta già di per sé un giudizio negativo, una condanna, ma che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale non lo potremo discutere prima che sia stato perpetrato. E, naturalmente, il principio vale per i registi, ma anche per i direttori d'orchestra o i cantanti, il cui margine d'azione è magari meno appariscente,non per questo trascurabile. Vedere una minigonna invece di una crinolina è senz'altro più immediato, più facile, rispetto al considerare la scelta di archi con corde di metallo o di budello, un certo organico orchestrale, scelte di tempi e fraseggio, vibrato, variazioni. Ci sono mille ragioni storiche per cui oggi non si canta, non si suona, non si dirige e non si ascolta esattamente come cinquanta, cento, duecento anni fa. E così non si recita, non si interpreta, non si fraseggia, non si illumina, non si indossano costumi o si costruiscono scene come cinquanta, cento o duecento anni fa.
Questo va molto al di là della boutade semplicistica “non cambio le note” (che si sono cambiate o tagliate eccome nella tradizione!) e “non cambio la foggia di scene e costumi”.
Della filologia
Invoco la storia e la filologia. Che possono essere esigenze di maniaci, ma adempiono a un doveroso rispetto del lavoro intellettuale altrui... resta infatti senza risposta la domanda: che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico? Soprattutto: che tipo di messaggio intende trasmettere al fruitore moderno? La fantasiosa inventività del rifacitore che intende sovrapporsi all'autore?
Sono parole del prof. Enrico Malato riportate da Corrado Augias (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2020/07/25/il-rigoletto-e-quellinventiva-che-fa-rinascere-lopera25.html). Parole che celano un evidente fraintendimento: infatti, questa ricerca di regole, nell'invocazione (questa sì, se non arbitraria almeno capziosa) della filologia, rischia di perdere di vista che la musica e il teatro, quindi l'opera lirica, sono arti performative e per esistere nell'istante effimero della rappresentazione necessitano di interpreti che inevitabilmente danno una loro lettura, una loro impronta al testo. Come l'opera esiste nell'attimo fuggente (e chiedergli “arrestati, sei bello” può costarci l'anima), così è labile il confine entro cui l'interprete può muoversi senza commettere arbitrio. O, quantomeno, impossibile da stabilire se non secondo canoni soggettivi, mutevoli nello spazio e nel tempo.
Perfino le norme filologiche cambiano negli anni, e un'edizione critica dei tempi del Wilamowitz non seguirà gli stessi criteri di una redatta oggi, senza che si possa definire l'una o l'altra “giusta”. Così, possiamo stabilire che il Bach o il Rossini che si suonano e cantano oggi siano più “giusti” di quelli di cinquanta o cento anni fa? Non è più corretto e sensato constatare che nel tempo cambia anche la sensibilità, il gusto, il modo di intendere una prassi esecutiva e di rapportarsi a un testo, a un'opera d'arte?
Posto che ogni rappresenzione deve essere un'interpretazione, una traduzione della partitura e del libretto in canto e azione su un palco, come possiamo, a priori, definire ciò che davvero rispetta il testo e ciò che tradisce? Mi preoccupo molto quando sento parlare di “rispetto” per il testo perché troppe volte la parola esprime l'adesione all'abitudine, a una lettura letterale e superficiale e non a uno scavo critico più approfondito. Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senzaandare oltre la convenzione.
Rispetto, cornice e quadro
Sempre nel suo pezzo su Micromega (http://temi.repubblica.it/micromega-online/rigoletto-michieletto-flores-d-arcais-augias/), Flores d'Arcas incalza su Rigoletto, casus belli, sostenendo che non è possibile cambiare ambientazione perché è «quintessenziale che [il protagonista] sia un buffone». Tuttavia, forse l'ambientazione non è così sostanziale se già per Verdi Mantova fu un mero ripiego per poter presentare sulle scene Le roi s'amuse di Hugo senza scomodare i reali di Francia. Forse, appunto, a Verdi non interessava proprio un quadro storico rinascimentale, gli interessavano i caratteri, i personaggi e i loro rapporti. Si batté perché Rigoletto avesse la gobba per un motivo ben preciso: nel 1851 era impensabile, scandaloso che un personaggio tragico fosse deforme, un povero buffone gobbo poteva essere una risorsa comica in un'opera buffa o semiseria; oppure, anche in futuro, la difformità fisica sarà (Gianciotto Malatesta, Tonio nei Pagliacci) immagine della personalità più bieca e dovremo attendere Der Zwerg, Il nano, di Zemlinskij per vedere un omino considerato un giocattolo dalla corte soffrire e amare come un essere umano. Oggi, alla gobba siamo abituati. Ora, il saltellare claudicante del giullare non ci fa nessun effetto. Eppure Verdi voleva che ci sconvolgesse, che ci disturbasse, che ci sbattesse in faccia la doppiezza del mostro e del padre, del servo dei vizi del Duca e del vendicatore della virtù. Quando, qualche anno fa, a Bologna, il regista Alessio Pizzech mostrò Rigoletto (senza gobba) come Drag Queen nei festini di corte di notte, perfetto padre borghese benpensante di giorno, ha reso viva proprio la lacerazione sconcertante che Verdi ha voluto espirmere nella sua opera. O, quantomeno, ha dimostrato di aver lavorato attentamente sul testo per restituirgli un senso profondo, più profondo dei campanelli sul berretto del giullare. Poi, potrà non piacere, potrà essere oggetto di discussione, ma è un'interpretazione basata su ciò che ha scritto Verdi, un'interpretazione forse più rispettosa di chi, semplicemente, pensa che il nucleo di un tale capolavoro possa essere servito mantenendo una bella cornice a cui siamo abituati.
Invece, la cornice rischia di soffocare il quadro. Non sempre, è chiaro: infatti la distinzione saggia si basa sulla coerenza dello spettacolo, sulla sua qualità complessiva, e non meccanicamente sull'iconografia scelta (regia non significa “scene e costumi”). Lo scopo dell'opera non è certo di allestire documetari storici, senza contare che la percezione di un antico Egitto o di un'Inghilterra Tudor credibili nel XIX secolo non sarà esattamente la stessa agli albori del XXI: come dovremmo allora comporcarci? Riprodurre i bozzetti che centocinquant'anni fa erano piaciuti a Verdi, o rifarli per come oggi ci parrebbero più “autentici”? Le sei mogli di Enrico VIII con Charles Laughton (1933) è più o meno “autentico” storicamente di L'altra donna del Re con Johansson e Portman (2008)? E se Enrico VIII era, specie ai tempi dell'affaire Bolena, considerato un bell'uomo, sarà meglio identificarlo con un interprete che somigli al ritratto dipinto da Holbein o con uno che appaia attraente per i canoni odierni? E se il Giulio Cesare di Shakespeare o quello di Händel vestivano e si comportavano come un gentiluomini del loro tempo, possiamo stabilire in maniera assoluta come sia opportuno vestirli oggi? Toga e lorica, calzamaglia, giustacuore, doppiopetto? Forse sarebbe meglio andare oltre e cercare la ragion d'essere di un testo che continua a interessarci stia nelle milel possibilità di una lettura intelligente e non nel controllare se gli interpreti siano vestiti alla romana, all'elisabettiana, alla moda del Settecento o del Duemila.
Visto che si invocava la filologia a tutela della conservazione museale del passato nel teatro, snaturandone l'essenza stessa, ribalterei la situazione: proprio lo studio della storia del testo, delle prassi esecutive, della ricezione ci fa comprendere in maniera critica il passato, ci dà gli strumenti per leggero e interpretarlo, ci da una consapevolezza che dovrebbe spazzar via la tentazione a fissare modelli immutabili da imitare in eterno.
Se così non fosse, ora non sentiremo così vivo e presente il teatro di Rossini e di Verdi, ma ambiremmo a giornate intere passate a teatro in sale illuminate a olio, fra fumi, chiacchiere, brindisi... Inutile nascondersi dietro il baluardo dei bei tempi antichi e dell'arte del passato minacciata dalle giovani generazioni: il tempo, i gusti, le modalità di fruizione cambiano, i tempi andati si sono sempre rimpianti e i nuovi paventati (sì, anche Zeffirelli fu chiamato “giovane strambo”) prima di diventare classici a loro volta. Mio nonno, classe 1922, diceva che «se gli antichi non avessero avuto fantasia oggi non avremmo i classici».
Flores d'Arcais, poi, paragona gli interpreti ai traduttori, ma in questo caso il parallelo non regge. La letteratura non è arte performativa come l'opera. Tolstoj scrive in russo e la traduzione è un compromesso per raggiungere il lettore che non conosca la lingua; Verdi scrive perché qualcuno porti in scena la sua opera, perché la interpreti. Guerra e pace è consegnato direttamente al lettore; Rigoletto ha bisogno della scena, del canto, dell'azione, dell'orchestra. Nel melodramma l'interpretazione non è compromesso, è parte stessa dell'opera d'arte.
Quel minuetto a Palazzo Te
Caro Augias, […] Voglio solo farle una domanda: nel primo atto del Rigoletto, Verdi inserisce un Perigordino, una danza antica, molto adatta per essere ballata alla corte del duca di Mantova nel XVI secolo, epoca in cui si svolge la vicenda. Lei non pensa che, in un'edizione ambientata negli anni Ottanta, la musica di quell'anacronistica danza si potrebbe sostituire con la musica di una Lambada, o di una Pop Dance più coerente con l'azione scenica (eseguita con strumenti rock)? Lei lo troverebbe scandaloso?
Anche Nicola Piovani (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2020/07/25/il-rigoletto-e-quellinventiva-che-fa-rinascere-lopera25.html) è entrato nella questione e le sue osservazioni lasciano stupefatti. Possibile che chi ha dato tanto al cinema come compositore associ in maniera così schematica, con una provocazione invero superficiale, musica e azione. Nell'introduzione di Rigoletto si ascoltano il Perigordino e il Minuetto: due danze dalle origini antiche, sì, ma codificate nel XVIII secolo, e dunque, a rigore, più adatte alle corte di Luigi XV che di un anonimo Gonzaga del Rinascimento. D'altra parte, quanti valzer abbiamo sparsi qua e là in opere ambientate quando il valzer non esisteva? E in Un ballo in maschera Verdi non piazza forse danze che fanno più Parigi di metà Ottocento che Boston coloniale? Ma era la musica giusta, comunque, per quell'azione scenica, per quella drammaturgia. E ciò che quella musica ci suggerisce, con le parole, i caratteri, le relazioni, forse conta un po' più di una data indicata nella prima pagina del libretto. Un libretto che spesso raffazzona fatti storici di fantasia per far passare attraverso le maglie di censura, moda e consuetudini il proprio messaggio (che magari non è se Anna Bolena mettesse o meno le corna a Enrico VIII, ma il dramma di una donna distrutta dalla sua stessa ambizione, o, almeno, forse è quest'ultima questione che ci rende ancor oggi interessante l'opera di Donizetti). Mi pare ovvio che nella logica interna di un testo l'aderenza realistica non sia un fattore determinante. Possiamo figurarci Norma in latino e celtico? Naturalmente no. Così in fondo importa poco o nulla se l'esotismo espresso da Rameau o da Puccini sia più o meno “autentico”: conta che funzioni nel proprio sistema poetico. Così, il Perigordino serviva a Verdi come danza di corte nel susseguirsi frenetico e disordinato in un festino nobile e immorale, un po' sulla falsa riga di Don Giovanni, non per dirci “siamo nel secolo tale e quindi vi faccio ascoltare musica del secolo tale”.
Proprio a tal proposito, qualche anno fa nei teatri della Lombardia e dell'Emilia Romagna girò un bel Don Giovanni con la regia di Graham Vick, ambientato ai giorni nostri (leggi la recensione Brescia, Don Giovanni, 07/11/2014 e Reggio Emilia, Don Giovanni, 11/12/2014). Di Don Giovanni ne ho visti molti, di ogni tipo, ma mai avevo visto così chiaramente servire e rappresentare come nella coreografia di Ron Howell il caos ordinato dalle tre orchestre sovrapposte in tre danze diverse secondo la geniale invenzione di Mozart. Lì il testo era stato rispettato più che fra mille ciprie e parrucche, e il fatto che fossero danze ben oltre due secoli prima ballate da giovanotti di oggi non sembrava strano: era teatro, irreale per definizione, coerente e quindi credibile.
Perché questo resta il punto fondamentale. Creare poi sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente. Dopotutto, il teatro e la vita non son la stessa cosa e l'opera, dove si canta invece di parlare, ancor meno. Ma l'opera può parlare della vita proprio costruendo una sua coerenza, un suo sistema logico sulla scena. Basta che funzioni. Poi, ovvio, se ne potrà discutere, ma senza pregiudizi, senza aspettarci solo quel a cui siamo abituati o quello che ci pare aderente alla nostra idea di fedeltà storica.
Apparenza, sostanza, professionalità
Una delle peggiori zavorre che affliggono la possibilità di un dibattito serio e interessante sull'evoluzione dell'intepretazione teatrale dell'opera lirica e sul ruolo del regista è la tendenza a generalizzare sulla base sommaria di questioni di gusto personale. Anche Flores d'Arcais parla dei “registi alla Michieletto” come dei frustrati con ambizioni autoriali, aggiungendo alla pretesa di sancire limiti assoluti all'interprete la pretesa di decretare anche le motivazioni interiori e velleità presunte della persona. Ma talora, se non spesso, decreti di questo genere si contraddicono da soli per scarsa conoscenza o riflessione sull'opera dello stesso regista. Così Leo Muscato per un tradizionalista può diventare un eroe (la maggior parte dei suoi spettacoli è decisamente innocua) o l'anticristo (firmò lui la Carmen in cui la sigaraia reagisce sparando a Don José, scelta se vogliamo discutibile ma che rimane circoscritta alle sole recite fiorentine e agli incubi ossessivi di chi la cita compulsivamente, anche cambiando titolo, teatro o regista). Così Mario Martone, così perfino Liliana Cavani o Graham Vick. Forse, prima di liquidare un regista in una battuta perché si è visto uno spettacolo o due, perché sembra più o meno tradizionale, sarebbe il caso di riflettere e approfondire meglio, di valutare nel merito delll'allestimento o di una carriera e non sulla base di assoluti categorici a priori. Anche perché, svalutando con un tiro al piccione a base di arguzie e motti di spirito, si rischia di perdere di vista il vero problema, anzi, di alimentarlo. Piacciano o meno, i Michieletto, i Vick, i Kratze, i Guth, i Loy, i McVicar, i Leiser Caurier, i De Ana sono registi di professione, possono firmare produzioni più o meno riuscite, più o meno convincenti o vicine al nostro gusto, ma sono uomini di teatro con studi ed esperienze solidi e mirati. Il guaio è, invece, quando si pensa che per mettere in scena un'opera non servano studi ed esperienze, ma che un cineasta, un attore, addirittura un personaggio televisivo, un critico d'arte, un cantautore possano tranquillamente cimentarsi nella regia. No, il teatro d'opera non è l'illustrazione di un concerto e la regia è una cosa seria. Cominciamo a considerarla tale, cosa per professionisti, e poi potremo discutere di quel che i professionisti ci propongono.
Giovani e futuro
Il 2 settembre anche Michieletto prendeva la parola su La Repubblica (https://rep.repubblica.it/pwa/robinson/2020/09/01/news/l_opera_lirica_deve_cantare_la_nostra_realta_-266006441/) con un articolo che sostanzialmente si interroga sul futuro ed esprime la necessità del teatro lirico di rapportarsi all'attualità e l'importanza di valorizzare l'opera contemporanea. Ed è certo giusto, sacrosanto sollecitare l'attenzione sulle nuove composizioni (che non mancano, anche se l'Italia è un po' meno ricettiva di altri paesi), ma bisogna anche notare che La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo, a qualcosa di un po' più importante di una crinolina o della foggia della “cuffietta rosa”. A Pesaro Graham Vick ha messo in scena Mosé in Egitto ambientandolo nel Medio Oriente contemporaneo. In quell'opera si canta “Dio così stermina i suoi nemici”, un capo di stato si interroga sull'opportunità di permettere a dei profughi di uscire dal suo paese e sulla possibile reazione dei confinanti, un leader è disposto a sacrificare vite umane per motivi religiosi: non una virgola del testo sembrava fuori luogo, anzi: ci appariva con maggior forza e ci sconcertava per l'attualità e la verità di un'opera che era sempre sembrata splendida ma lontana.
Nel canto X dell'Inferno Farinata spiega a Dante che le anime dell'oltretomba possono vedere nitidamente nel tempo solo a grandi distanze, mentre gli eventi vicini si offuscano. Così, anche per noi la quantità di eventi, interpreti, rappresentazioni presenti e non storicizzate possono apparire men chiare di quel che il filtro del tempo ha distillato per noi, ma siamo così certi che questo senso di aver già detto tutto, o quasi, e di rischiare derive appartenga solo a noi e non sia una costante del pensiero umano?
Alle parole di Michieletto, Augias assentiva e ancor più sosteneva che «l'opera lirica è un genere in esaurimento, per essere goduto richiede conoscenza e attenzione; farvi appassionare le nuove generazioni è difficile. Le (buone) regie innovatrici possono essere un rimedio. Fatta ovviamente salva la domanda: è meglio tenere in vita un genere a costo di “diluirlo»? O mantenerle integra la purezza a costo di vederlo scomparire?”.
Di nuovo, un fraintendimento che genera conclusioni – anzi, interrogativi - fuorvianti. Proprio l'avvicendarsi di generazioni di interpreti (cantanti, direttori, registi, etc) e spettatori ci dice che l'opera può avere ancora molto, moltissimo da dire, rinnovandosi senza sosta come ha fatto negli ultimi quattrocento e più anni. Quello delle nuove generazioni da attrarre è un falso problema, perché il gradimento di un certo tipo di spettacolo non è un automatismo anagrafico e l'arte dell'interprete non deve essere un mero meccanismo promozionale. Mia nonna, classe 1931, preferisce gli allestimenti che chiama “senza costumi” perché trova che comunichino molto meglio il dramma, facendocelo sentire più vero e vicino. Ci sono ragazzi che si innamorano di mondi fantastici e ambienti antichi. Ciascuno va a teatro con le proprie esperienze e la propria sensibilità, e si confronta con l'esperienza, la sensibilità, il lavoro e il messaggio veicolato dagli interpreti di volta in volta. Questa è la natura dell'opera, arte che dalla carta prende vita con esseri umani per esseri umani. Interpretare è forse “diluire”? Forse, ma è nella natura del testo, per arrivare al pubblico, fin dalla sua prima assoluta. E la “purezza”, : cos'è la purezza? L'illusione rassicurante di un'immagine a cui siamo abituati? La chimera di un librone che resta inerte se non interpretato (il Don Giovanni “di Mozart e Da Ponte” esiste solo come testo scritto, ma ne fruiremo sempre e solo attraverso gli interpreti di turno)?
La Bohème allestita da Graham Vick a Bologna quasi tre anni (leggi la recensione Bologna, La bohème, 19/01/2018) fa sarebbe diluita o “impura” perché in abiti contemporanei? Eppure è esattamente la storia di giovani che si innamorano, si lasciano, godono la vita e scoprono la morte, cantata e recitata senza che una nota di puccini o una sillaba di Illica e Giacosa siano andate perdute. Il teatro era pieno, commosso, in tripudio a ogni recita. E se si riesce ancora in forme nuove a far vivere quel testo scavando nel profondo dell'unione indissolubile di parole azione e musica, possiamo dire che l'opera sia in esaurimento? Oppure possiamo parlare di innovazione non come naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa, ma come espediente per “catturare” i giovani, come accanimento terapeutico? Non è quello che vedo frequentando i teatri d'opera, fra spettacoli belli e brutti, discussioni anche accese, passioni ed entusiasmi. L'opera è teatro ed è musica, e come abbraccio indissolubile di tali elementi continua inesorabilmente a rinnovarsi e presentarsi con mille volti, sempre fedele a se stessa e mai identica.
Il cliché del cappottone nazista infilato sempre e comunque da frustrati afflitti da patologie psichiche o desiderosi di fama accalappiando qualche giovane sedotto da una bizzarria vive solo nelle ossessioni di chi l'opera la frequenta poco ma la vorrebbe sempre e solo come la immagina ed è abituato a vederla. Nella realtà, c'è di tutto: spettacoli meravigliosi, intelligenti, profondi e, sì, anche il cliché e quanto di peggio si possa deprecare, ma non solo quello, non secondo categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica.