L’Ape musicale

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Indice articoli

ATTORNO A IL SUONO GIALLO

di Alessandro Solbiati


Il teatro musicale e i miei primi cinquant’anni...
Fino a tutto il  2006, cioè fino ai miei 50 anni suonati, non ho mai cercato di dedicarmi al teatro musicale. Ho visto nascere e ho seguito le opere di molti miei colleghi, più vecchi, coetanei o più giovani, ma ho continuato a nutrire una sorta di diffidenza.
Le radici di tale diffidenza erano innanzitutto da ricercarsi in una predilezione per la musica cosiddetta assoluta, quella, storica o contemporanea, non destinata a proiettarsi sulla scena, e poi, lo confesso, in una certa antipatia per il “fenomeno” opera lirica.
Attenzione, non sto parlando di scarso amore per le opere di Rossini, Verdi e Puccini: come tutti, ho pianto con Mimì e con Violetta e ho riso con Figaro o con Falstaff.
Ma ho sempre visto il “fenomeno” opera lirica come qualcosa che ha molto condizionato (in negativo) la cultura musicale italiana: con metafora sportiva, mentre a Vienna nell'800 amare la musica significava ritrovarsi a salotto e “praticare”, anche se da dilettanti, i Quartetti di Mozart e Beethoven (esattamente come dire “praticare” uno sport), in Italia amare la musica significava per lo più andare a teatro e parteggiare per quel soprano o per quel tenore (come definirsi sportivi andando solamente allo stadio per fare il tifo ad una squadra).

La svolta del 2007
Poi nel 2007 due fattori, oltre forse ad una naturale maturazione, mi hanno fatto superare questa ritrosia.
Da una parte la mia musica, pur complessa, mi è apparsa più esplicita, le sue figure più chiare nel loro sia immediato apparire sia evolvere nel tempo. In altre parole, essa era diventata consapevolmente sempre più “narrativa”, pur rimanendo astratto l'oggetto della narrazione.
Ma ciò significava anche che le mie situazioni musicali erano ora più adatte ad essere proiettate sulla scena, ad incarnare una “vera” narrazione.
In secondo luogo mi sembrava giunto il momento di esprimere, in tutta umiltà ma anche con piena coscienza, una mia “visione del mondo”, uscendo dalla pura astrattezza della musica.
Per fare questo era necessario un testo che incarnasse appunto un'intera visione del mondo.
Io non ho cercato quindi, genericamente, di “fare del teatro musicale”, ma ho perseguito il fatto di mettere in scena un testo ben preciso, quello che più di tutti incarnava appieno le mie istanze: la Leggenda del Grande Inquisitore dai dostoevskijani Fratelli Karamazov.
La proposta, effettuata nel 2007, venne accolta con entusiasmo da Gianandrea Noseda e dal Teatro Regio di Torino e nacque Leggenda, andata in scena nel settembre 2011.
Simultaneamente mi venne fatta una proposta di commissione per un'opera più breve da parte del Teatro Verdi di Trieste. Ed è lì che nacque il primo germe del progetto Suono giallo.
Infatti, a fianco di Leggenda, il cui teatro è simultaneamente “di pensiero” e “di vicenda”, date l'infinita profondità della fonte letteraria da un lato e la chiarezza del suo arco narrativo (da me peraltro molto sottolineato) dall'altro, mi interessava sperimentare un teatro molto più astratto, in cui la narrazione, pur ben presente, mantenesse un forte livello simbolico di astrazione e venisse delineata dal dipanarsi del gesto, dei movimenti e della luce più che dal testo.
Il mio pensiero andò subito alle composizioni sceniche di Kandinskij, e in particolare alla più complessa, Der Gelbe Klang, appunto, sennonché non ottenni dagli eredi il permesso di utilizzarlo e di metterlo in scena.
Scelsi allora un microdramma di Puskin, Il festino in tempo di peste, che divenne per me quasi uno studio preparatorio per Leggenda nell'opera poi intitolata Il carro e i canti, rappresentata a Trieste nell'aprile del 2009.

Il “giallo” dell’opera
Ma l'intenzione di sperimentare un teatro più astratto non mi ha mai lasciato, e non appena si sono risolti i problemi di protezione dell'opera di Kandinskij, ho proposto il “mio” Suono giallo al Teatro Comunale di Bologna incontrando subito l'entusiastica approvazione dal parte del direttore artistico Nicola Sani, che ha sostenuto e sostiene a tutt'oggi il progetto con una convinzione emozionante.
Quando però, nel corso del 2013, ho incominciato davvero a lavorare sulla composizione kandinskijana, mi sono reso conto che, passata l'iniziale euforia, mi si poneva di fronte un problema piuttosto preoccupante: Der gelbe Klang è sì un affascinantissimo coacervo di misteriose indicazioni di gesto, suono, luce e movimento, incarnate da altrettanto misteriosi “personaggi”, ma in esso il testo vero e proprio, banalmente “le parole da far cantare”, è assai scarno, troppo scarno!
Senza scoraggiarmi, ho iniziato a leggere e rileggere il Prologo, i sei Quadri e l'Epilogo che costituiscono Der gelbe Klang, a sfrondarli dall'enorme, minuzioso, visionario e velleitario numero di indicazioni in esso contenute, alla ricerca di una sua struttura narrativa profonda, sotterranea e unitaria che attraversasse il tutto senza farsi travolgere dai particolari.
E alla fine mi è apparsa sempre più chiara un'unica arcata ben direzionata, che è poi divenuta il filo conduttore della mia narrazione: eccola.
Si parte da un vuoto (poiché nel Prologo nulla è in scena) e da un ossimoro, cioè da un raggio di luce bianco sempre più penetrante mentre l'ambiente attorno si fa sempre più scuro.
Poi, nel primo Quadro, compaiono i personaggi centrali, i misteriosi cinque Giganti, che qui si presentano quasi in stato vegetale, in pratica non separati l'uno dall'altro, privi di ogni individualità o intenzionalità di comportamento: la prima indefinita presenza vitale.
Nel secondo Quadro, il primo percorso di tensione verso un climax, i Giganti sono meglio individuati e sulla scena con loro appaiono altre figure, che si focalizzano attorno a una presenza verticale ora “solida” quanto impalpabile - era il raggio di luce del Prologo -, quasi adorandola in una crescente agitazione: la nozione di individuo, l'originalità stessa della forma vivente si fa strada, ma esplode in una forma di disordinata affermazione di se stessa destinata a fallire.
Ed infatti il terzo Quadro piomba nel vuoto, nell'assenza, ma è un'assenza di sconfitta, non di “premessa” come nel Prologo. I Giganti si limitano a sussurrare, a mormorare.
Il quarto Quadro, che sembra del tutto estraneo al contesto, è invece sotterraneamente ben collegabile all'intero percorso: in esso, unico momento dotato di un certo realismo, una figura di bambino gioca a tirare una cordicella connessa alla campana di un campanile, finché un'incombente figura maschile non gli intima il silenzio. L'individuo è dunque ricomparso, in forma molto più ordinata e sognante, anche se deve affrontare l'ostilità dell'ambiente.
Il quinto Quadro, il più ampio, è il momento risolutivo. Dapprima vengono riassunti vari eventi precedenti, si ripresentano i giganti e le varie figure intorno, ma questa volta una di esse - una figura guarda caso bianca come il raggio iniziale - si stacca ed inizia una danza, attirando l'attenzione generale. E tutto giunge al climax, il vero climax. La presenza individuale, che ha saputo sognare nel quarto, venendo però bruscamente interrotta, ricompare: è fisica e “vera”, e il movimento della danza questa volta è vincente.
Ed è infatti attraverso questa definizione vitale del tutto compiuta, che l'individualità può essere superata (e non annullata) nell'universalità: nel sesto Quadro i cinque Giganti si fondono in un'unica figura che si protende verso l'alto, mentre tutto si fa più luminoso.
Questa superiore unità è suggellata dall'Epilogo, dove si ritorna sì al vuoto iniziale, ma nella luce e nella calma di un canto.

Oltre Il suono giallo sempre Kandinskij
La mia direzionalità, il mio percorso, astratti, ma fortemente narrativi pur in forma simbolica, erano stati trovati. Ma il testo continuava ad apparirmi del tutto insufficiente.
Ed allora ho frugato per settimane tra i testi di Kandinskij, cercando un po' a caso uno stimolo.
E un giorno l'ho trovato in un appunto manoscritto da lui apposto a fianco di un saggio, ma espunto al momento della pubblicazione del saggio stesso: solo un'opera omnia lo ha recuperato. Si tratta di un testo in cui Kandinskij descrive in modo affascinante il percorso psichico ed emotivo di un artista durante l'atto creativo. Con stupore mi sono accorto che le varie fasi coincidevano perfettamente con l'arco complessivo da me identificato come struttura narrativa profonda del Suono giallo: l'artista parte dal vuoto, da una condizione di vaga intenzione creativa, dai contorni del tutto sfocati. Tutto a un tratto ha la sensazione di avere improvvisamente tra le mani l'idea e la stringe quasi in stato di ebbrezza, convulsamente ed affrettatamente. Ed essa si sgretola con la stessa velocità con cui era apparsa, lasciando l'artista in uno stato di totale prostrazione, poiché la sua superficialità gli ha fatto perdere tutto.
Solo attraverso un cammino assai più lento, più maturo, più composto e profondo, si risale dall'abisso e l'idea a poco a poco prende forma, la tensione giunge al massimo, ma nella certezza che questa volta l'energia creativa potrà alla fine incarnarsi profondamente nell'opera e placarsi in essa.
È evidente che i due percorsi, quello del Suono giallo e di questo appunto così importante, possono essere perfettamente sovrapposti.
Il “mio” Suono giallo è diventato simultaneamente la visualizzazione e la messa in scena del percorso creativo dell'artista.
Gli archi narrativi sono diventati due, intrecciati: o meglio, si tratta dello stesso percorso narrativo visto da due punti di vista differenti, con due diverse simbologie e significati.

Due testi, una sola opera
Ma come potevo comportarmi nei confronti del testo?
I due a disposizione erano profondamente differenti.
Quello di Der gelbe Klang è in qualche modo “poetico”, cioè è costituito da versi forse senza una particolare ambizione letteraria, ma certamente suggestivi e visionari, simbolici e criptici, spesso divisi tra loro da puntini di sospensione che ne accentuano la natura frammentaria. Viceversa il testo da me tratto dall'appunto manoscritto di Kandinskij è in prosa, ha frasi più ampie e compiute, è molto significativo ed intenso, ma non ha alcuna ambizione poetica.
Come collocare, come intrecciare i due testi? E a chi affidarli?
Dopo aver un po' brancolato nel buio, ho avuto un'intuizione.
Mi sono cioè ricordato di un'opera che fu per me molto importante, intorno ai miei 25 anni di età: la Noche obscura di San Juan de la Cruz. Tale lavoro profondamente mistico è costituito da una lirica introduttiva, in strofe, e da una serie di capitoli, ciascuno dei quali prende in esame una singola strofa e ne espande filosoficamente i significati.
Mi sono accorto che io avrei potuto agire allo stesso modo con i due testi kandinskijani originari.
Il primo, il più ampio, interamente collocato nel Prologo, è affidato dall'autore al coro grande, quasi potesse costituire il “programma” testuale stesso dell'intero lavoro.
Ed infatti, leggendolo con attenzione, ci si accorge che i singoli versi, opportunamente “decantati” e selezionati, ma lasciati nel medesimo ordine, possono via via costituire la spina dorsale del percorso immaginativo globale, delle “energie” che pervadono le successive visioni kandinskijane.
Il primo testo poetico viene quindi letto due volte, la prima, integrale, nel Prologo, la seconda, parcellizzata, via via nei Quadri seguenti.
Analogo destino subisce il secondo testo poetico, assai più breve e dotato di evidenti allusioni sessuali: esso viene cantato interamente dal coro piccolo in scena nel secondo Quadro e poi, parcellizzato, si aggiunge al primo nei successivi Quadri.

Chi canta cosa? ovvero ... a chi affidare l’interpretazione dei testi kandiskijani?
Prima di scendere nel dettaglio dell'intreccio del secondo testo, quello del saggio in prosa, con i primi due poetici originari, è essenziale rispondere ad una delle domande prima poste: a chi sono affidati i testi, entrambi utilizzati in lingua originale, cioè in tedesco?
Kandinskij propone le “presenze viventi” del “Suono giallo” secondo una sorta di struttura a cerchi concentrici, dal collettivo all'individuale, dall'universale al particolare, che, seppur non linearmente, si rivela a poco a poco.
Vi è un coro grande che, appena visibile o invisibile che sia, non entra nel gioco dell'arco narrativo, ma in qualche modo lo genera e lo commenta.
Nel secondo Quadro compare un coro piccolo ben attivo sulla scena, collettivo ma molto frammentato.
I cinque Giganti sono i veri protagonisti del percorso di progressiva messa a fuoco e successiva sublimazione della presenza vivente: ma guarda caso essi non hanno nessun attributo “umano”, in Kandinskij, ma, appunto, solo “vivente”.
Infine, l'intero lavoro da un certo momento in poi è punteggiato da alcune comparse davvero individuali, solistiche, culminanti al centro dell'opera, nel quarto Quadro, nel bambino, finalmente una presenza decisamente umana, zittita ahimè quanto prima da un'altra presenza umana.
Prima vi sono state una pura voce maschile che irrompe dall'esterno nel terzo Quadro, quello del tutto sgretolato, e poi, nel quinto Quadro, la “figura bianca” che danza.
Io ho di volta in volta utilizzato per tali momenti solistici uno dopo l'altro i cinque Giganti, vuoi per economia di mezzi vocali, vuoi per una precisa scelta di interpretazione del testo: è il tenore che irrompe vocalmente nel terzo Quadro, è il Soprano ad interpretare il bambino e il baritono ad interromperla, è il mezzosoprano a costituire l’”interfaccia vocale” della figura bianca danzante del quinto Quadro. Ho poi aggiunto una parte solistica al Basso, per dare il via al percorso di sublimazione del sesto Quadro.
In questo modo, i Giganti hanno una sorta di “punta d'iceberg” individuale ed anche umana, prima di fondersi nella luminosa unità finale.
   

Qual è dunque la strategia di attribuzione del testo?
I due cori “lanciano” i testi kandinskijani, delineando così la struttura immaginativa generale, ma, soprattutto nel caso del coro grande, non entrano a farne parte.
I Giganti, le vere presenze viventi, simbolici protagonisti del percorso narrativo, ereditano e incarnano le successive frammentazioni testuali.
A questo punto il Coro grande, che avrebbe terminato la sua funzione, diventa invece il “portatore” del secondo testo, quello in prosa da me espunto da un manoscritto di Kandinskij, e assume la fisionomia e il senso di un “coro greco” che assiste (oltre a delinearlo) al percorso psichico ed emotivo dell'artista creatore, mentre i Giganti in scena diventano la proiezione, l'incarnazione stessa della psiche dell'artista durante l'atto creativo.

Forma, timbri, voci ... cos’è il “mio” Suono giallo? ... Una Sinfonia scenica.
Tutto stava prendendo forma.
Ma come comportarsi dal punto di vista musicale, formalmente e timbricamente?
E che tipo di vocalità utilizzare?
Innanzitutto ho operato una scelta forte, anche se non nuova, per me: niente elettronica, come, appunto, nelle due opere precedenti. Su tale argomento ho un'idea precisa, anche se ovviamente opinabile: il mondo d'oggi ci assale sempre più d'informazione, tutto deve essere carico, anzi sovraccarico di elementi. Non si può nemmeno più aspettare il metro senza avere intorno schermi televisivi, musiche, pubblicità. Io, oggi più che mai, ho bisogno di pulizia e di “necessità”.
In uno spettacolo di teatro musicale (e ancor più nel Suono giallo, dove per definizione luce, colore, movimento, parola e suono sono fusi insieme) le suggestioni, gli elementi forniti alla percezione sono già davvero molti. Non desidero un'elettronica che rischi di apparire una sorta di facile “panna montata”, voglio la nettezza di un suono orchestrale e vocale ricco fin che si vuole ma timbricamente “necessario”.
In compenso, ho accettato la proposta del Teatro Comunale di Bologna di utilizzare un'intera orchestra sinfonica, anche se questo darà non piccoli problemi di disposizione spaziale degli strumenti in buca.
Ma poiché le difficoltà devono essere trasformate in risorse, la difficile collocazione degli strumenti ci obbligherà certamente ad un'interessante spazializzazione, ad esempio collocando molte percussioni nei palchi di proscenio: il suono sarà così più avvolgente, più a contatto del pubblico.
Il “mio” Suono giallo è di fatto un’ampia “Sinfonia scenica”; questa è la sua definizione migliore.

«Non c’è musica, in questo quadro». Come ri-costruire l’immaginario sonoro?
Quali sono state, dunque, le scelte formali, immaginative e strumentali?
Innanzitutto ho introdotto un Intermezzo orchestrale breve, di durata compresa tra i 90” e i due minuti e mezzo, nel passaggio tra ciascuna delle zone previste da Kandinskij.
Globalmente, l'opera è dunque composta da otto parti con presenze vocali (un Prologo, sei Quadri e un Epilogo) e da sette Intermezzi solo strumentali.
In partenza, lo scopo di tali Intermezzi, che a volte sono ben separati dalle zone circostanti e a volte sono invece ad esse collegati, era quello di permettere lo svolgersi delle successive fasi di un ulteriore evento da me immaginato sul proscenio, estraneo al contesto teatrale del Suono giallo e inerente invece al testo aggiunto.
Ma il successivo progetto scenico proposto da Gianni Dessì, in parte differente da quanto da me immaginato, ma ammirevolmente coerente con il significato profondo dell'opera, ha tolto agli Intermezzi questa funzione. Essi sono divenuti semplici episodi orchestrali che danno respiro all'evento scenico, con funzione a volte di commento del clima precedente, a volte di annuncio del successivo.
Ognuna delle otto parti del “vero” Suono giallo ha un suo centro di interesse musicale, ovviamente dedotto dalla “temperatura” della corrispondente situazione scenica.
Il Prologo è basato sull'ossimoro, coerentemente col testo cantato dal coro grande.
Vi è infatti una grande sottolineatura dei registri estremi, dopo un inizio vago e centrale, sì, ma in cui gli accordi di archi sono strumentalmente rovesciati: la parte più acuta è realizzata dai contrabbassi e quella più grave dai violini primi.
Il primo Quadro è volutamente neutro, un poco annebbiato, e lancia il secondo in cui si giunge ad un primo climax attraverso una situazione danzante un poco grottesca e graffiante.
Il terzo Quadro è viceversa quello della desolazione, del suono rumore, del vuoto come sconfitta e non come principio generatore.
Il quarto doveva superare un simpatico problema: Kandinskij lo inizia con la frase “non c'è musica, in questo quadro”, scelta per me evidentemente impossibile. Io ho reinterpretato tale indicazione come “non vi è orchestra, in questo quadro”. Poiché l'immaginario sonoro proposto è quello della campana fatta risuonare dal bambino, ho pensato al suono di percussioni tintinnanti (ad esclusione ... delle campane!) riverberate solo da un quartetto d'archi e dagli oboi che incarnano l'innocenza del bambino, vero punto di ripartenza della parabola del Suono giallo.
Il quinto Quadro, lanciato dai silenzi del terzo e dalla incantata rarefazione del quarto, è il vero climax dell'opera: tutte le componenti rientrano, riassumono le situazioni precedenti e giungono ad una danza sempre più ricca che conduce al fortissimo finale.
Sesto Quadro ed Epilogo, viceversa, rappresentano la sublimazione finale della parabola: il primo dei due, sottotitolato Mottetto a cinque voci, gonfia le voci via via dal grave all'acuto, mentre il secondo è un canto che approda a quel mi che rappresenta la nota cardine dell'intero lavoro.

Il ruolo della parola, che è suono e significato

Quando nel 2008 affrontai la mia prima opera, mi scontrai duramente con il problema della vocalità in scena. Abituato cioè, nei miei lavori vocali da camera e sinfonici, a considerare la parola come un mondo da indagare, allargare, suddividere, l'obbligo del tempo scenico della parola mi condusse a dover accettare una maggior velocità di dizione del testo e quindi, quasi inevitabilmente, a dovermi confrontare con la prosodia, con “l'accento messo al posto giusto”, il che veniva a conferire alla voce un tipo di ritmicità estraneo alla mia musica.
Sentivo cioè quel tipo di vocalità come un poco desueta, una sorta di atteggiamento accademico, più che tradizionale. Ma mi era sembrato di non avere scampo.
Poi, in Leggenda, ho fatto sicuramente alcuni passi avanti: ho asciugato il più possibile il testo, in modo da potermi concentrare sulla parola come suono e significato, e soprattutto ho intuito che dovevo considerare la voce come punta d'iceberg del tessuto orchestrale e la parola come esplicitazione estrema della figura musicale strumentale.
Qui, in Suono giallo, ho fatto un ulteriore passo in questa direzione, per due motivi: innanzitutto le parole da dire sono davvero poche e quindi il loro tempo scenico si allunga, in secondo luogo il significato metaforico e oscuro del testo originale, e persino il suono della lingua tedesca permettono una totale fusione tra il suono stesso della parola, la vocalità che lo veicola e la musica circostante. Il fatto che il testo aggiuntivo, più chiaro e narrativo, venga affidato quasi sempre al coro fuori scena mi permette già in partenza un distacco da tempi scenici obbligatori.
Tale uso della vocalità rende ancor più quest'opera una “sinfonia scenica”: il tempo teatrale si allarga, il “ritmo scenico” è rituale, del tutto fuso con la musica, come peraltro è nelle intenzioni di Kandinskij stesso, nella sua ricerca di “opera d'arte totale”, non parcellizzata nelle sue componenti.

In attesa di andare in scena ... Grazie!

Naturalmente questo testo viene scritto prima che l'opera vada in scena o anche solo venga provata, quindi sono in trepidante attesa di verificare tutto quello che ho scritto.
Devo però fin d'ora ringraziare Nicola Sani, e il Teatro Comunale, che ha dimostrato di credere in quest'opera, superando le difficoltà dei ben noti momenti precari in cui ci troviamo. Con lui Marco Angius, che sta agendo quasi da co-autore prima ancora di iniziare a dirigere, facendo sopralluoghi, verificando il lavoro con i cori. Raramente ho incontrato una tale passione e una tale sintonia musicale in un direttore. Per questo motivo, devo dire che sento Marco non tanto come il “direttore” del Suono giallo, quanto come il mio compagno di viaggio.
Devo poi ringraziare Gianni Dessì, che non è certo solo scenografo, ma vero artista figurativo, che ha avuto splendide intuizioni per un impianto visivo e scenico evidentemente più importante che mai, in un'opera come questa. Con lui vi è stato un bellissimo rapporto di “andata-ritorno”: io ho spiegato le mie intenzioni musicali, ma anche sceniche e visive, e lui mi ha restituito le sue, che danno piena forma alle mie, pur se in forma ovviamente e giustamente diversa.
Intuisco che la professionalità di Franco Ripa di Meana sarà preziosa e si manifesterà appieno nella difficile fase di realizzazione dell'opera, in quanto ogni singolo movimento dovrà essere calcolato e dovrà dare all'opera il senso di un corpo simbolicamente vivente, e so che in questo Franco sarà decisivo.
Devo infine ringraziare Francesco Leprino, che, come nel caso di Leggenda, ha accettato di realizzare la produzione video dell'opera, davvero fondamentale, in questo caso più che mai. E le produzioni video di Francesco vanno ben al di là di semplici documentazioni filmiche.
Il “mio” Suono giallo è dedicato a Heinz Holliger, caro amico, e a Ursula, sua moglie, mancata proprio nel periodo di composizione di questo lavoro.
Ma vi è una dedica segreta, che si manifesta anche musicalmente in vari punti dell'opera, cripticamente ma non troppo, fin nella scelta della nota via via più importante, ed è a mia moglie Emanuela, che ha vissuto insieme a me giorno per giorno questo cammino, e senza la quale nulla di ciò che scrivo esisterebbe.

Alessandro Solbiati

 

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bozzetti e immagini delle prove (foto Rocco Casaluci)


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