L’opera in breve
Cesare Fertonani
Nel 1706 il ventunenne Georg Friedrich Händel arriva in Italia per un viaggio di formazione e al contempo di autopromozione professionale; nel giro di tre anni soggiornerà a Roma, Firenze, Napoli e Venezia. A Roma il giovane musicista tedesco s’inserisce subito nell’ambiente, culturalmente ricchissimo, del mecenatismo sontuoso dei cardinali Carlo Colonna, Benedetto Pamphilj, Pietro Ottoboni e del marchese Francesco Maria Ruspoli. Qui le sue prime composizioni importanti sono pezzi di musica sacra; nella primavera del 1707 Händel riceve la commissione di un lavoro di ampie dimensioni, l’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno (il cui titolo originario era La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno); autore del libretto è uno dei suoi stessi protettori, Benedetto Pamphilj. Nell’Italia del Settecento l’oratorio non si differenziava quasi dall’opera nella struttura, nello stile musicale e nelle stesse convenzioni formali (alternanza di recitativi e arie), pur conservando caratteri peculiari come il soggetto religioso o allegorico, l’assenza – o la riduzione al minimo – della messa in scena teatrale e l’articolazione in due parti anziché in tre Atti (l’intervallo poteva essere occupato da un rinfresco, un sermone o un intrattenimento musicale). Quando, a Roma, tra lo scorcio del Seicento e il primo decennio del Settecento, l’opera pubblica impresariale fu bandita dal papato perché ritenuta ricettacolo di malcostume e corruzione, l’oratorio diventò il maggiore surrogato del dramma per musica. Incentrato intorno alla contrapposizione tra la falsità dei piaceri terreni e la verità della vita eterna, e dunque sui temi della penitenza e della conversione, il libretto assume più l’aspetto di una disputa morale e teologica che quello di una vicenda drammatica. I personaggi sono quattro figure allegoriche: Bellezza (soprano), Piacere (soprano), Disinganno (contralto), Tempo (tenore). È probabile che a ispirare il personaggio di Bellezza, indotta da Tempo e Disinganno a lasciare le tentazioni terrene che Piacere le offre a favore della fede religiosa, sia stata la figura di Maria Maddalena, prototipo dell’eroina penitenziale. La struttura e la gerarchia dei ruoli sono operistiche: Bellezza riceve otto arie e Piacere sei, mentre Disinganno e Tempo ne contano rispettivamente cinque e quattro. Oltre alle arie, ci sono poi, a completare un disegno simmetrico ed equilibrato, un duetto e un quartetto in ciascuna delle due parti. Nella partitura di Händel l’esplosione di una straordinaria inventiva e la padronanza della scrittura si associano a un’assimilazione stupefacente della musica italiana, non soltanto operistica ma anche strumentale, come testimoniano la Sonata introduttiva in tre movimenti e quindi, nella prima parte, la Sonata che costituisce il seduttivo concerto offerto da Piacere a Bellezza. Quest’ultima, un pezzo con organo concertante suonato da un “leggiadro giovinetto” (che nella prima esecuzione era lo stesso Händel, cui il cardinale Pamphilj rendeva così omaggio), riflette l’ambiguità con la quale nell’oratorio si tratta la sensuale bellezza dei piaceri terreni e di cui il fascino ammaliante della musica è il simbolo. Conturbante è del resto l’aria conclusi24va, con una meravigliosa parte per violino obbligato, cantata da Bellezza a suggellare la propria conversione. Händel compose la partitura in riferimento a un quadro le cui coordinate sono date dal virtuosismo vocale (di cui è emblema formale l’aria col da capo) e dallo stile concertante del concerto grosso romano. L’orchestra prevede, oltre agli archi e al basso continuo, due oboi, due flauti diritti e organo, al quale, come s’accennava, sono affidate pagine solistiche di rilievo, così come a oboe, violino e violoncello. Nulla si sa sulla prima esecuzione dell’oratorio, che dovette avvenire nella tarda primavera del 1707 a Roma, forse nel palazzo del cardinale Pamphilj o forse nel Collegio Clementino; i ruoli dei due soprani e del contralto furono senz’altro interpretati da castrati, mentre è verosimile che a dirigere l’orchestra fosse Arcangelo Corelli. È possibile che Il Trionfo del Tempo e del Disinganno sia stato allestito in una forma semiscenica – cioè con un fondale realizzato per illustrare momenti della vicenda ma senza una vera e propria azione teatrale –, come poi accadrà per il successivo oratorio composto da Händel a Roma, La resurrezione (1708). Certo la splendida partitura occupa un posto speciale nella produzione del compositore. A Londra, trent’anni dopo, Händel ne appronterà una seconda versione, intitolata Il trionfo del Tempo e della Verità (1737) e infine, a mezzo secolo esatto dalla prima esecuzione a Roma, una terza, questa volta in inglese, col libretto tradotto da Thomas Morell, The Triumph of Time and Truth (1757). Così, per una curiosa coincidenza, il primo oratorio di Händel sarà anche l’ultimo. Che l’autore tenesse in alta considerazione la partitura del 1707 è del resto confermato dal numero di pezzi che egli avrebbe poi riutilizzato, in varie forme, in composizioni successive. L’esempio più celebre è l’aria di Piacere della seconda parte, Lascia la spina, che con nuovo testo diventa la celeberrima aria di Almirena Lascia ch’io pianga nell’opera dell’esordio londinese, Rinaldo (1711).