L’Ape musicale

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Voluttà e perdizione. I peccati di un successo.

di Bianca De Mario

C’était une beauté étrange et sauvage, une figure qui étonnait d’abord, mais qu’on ne pouvait oublier. Ses yeux surtout avaient une expression à la fois voluptueuse et farouche que je n’ai trouvée depuis à aucun regard humain. Œil de Bohémien, œil de loup…

P. Mérimée, Carmen, 1845

Una bellezza singolare e selvaggia, lo sguardo voluttuoso e feroce. È così che Carmen apparve per la prima volta al visitatore francese nella novella di Mérimée, così doveva immaginarsela Bizet quando propose all’Opéra-Comique una composizione su questo soggetto e ancora oggi risuona in questo modo alle nostre orecchie. Selvaggia e voluttuosa. Del resto carmen in latino non significa soltanto canto, suono o canzone, ma anche profezia, incantesimo. Charme, in francese: il fascino di un nome, di un personaggio, ma anche di quello che, grazie a Bizet, è divenuto un mito.

Poco effetto ebbe quella malia al suo debutto, quel 3 marzo 1875, in cui – ironia della sorte – Bizet fu nominato per la Legion d’Onore. Le malelingue vociferavano infatti che, dopo la prima, quell’onorificenza non gli sarebbe stata certo conferita. Sebbene Camille du Locle, impresario dell’Opéra-Comique, avesse preallertato il pubblico dei benpensanti di tenersi alla larga dal teatro in occasione di quello che sarebbe stato uno spettacolo inconsueto, non furono soltanto i borghesi habitués a gridare allo scandalo. «È un delirio di nacchere, serpeggiamenti provocatori, coltellate galantemente distribuite tra i due sessi, sigarette arrostite da queste signore, ululati amorosi, balli di San Vito più osceni che voluttuosi, crisi di collera, attacchi di gelosia…», scriveva il critico de «Le Siècle» a pochi giorni dalla prima.1 Scherza invece Léon Escudier, de «L’Art Musical», dicendo che il titolo più calzante per quell’opera doveva essere L’Amour à la castagnette: «… da quando ho ascoltato Carmen, mi sembra che le orecchie, il naso e la bocca mi si siano tramutate in nacchere e funzionino solo per far schioccare quei pezzetti di legno così cari agli spagnoli!».2

Quando negli anni ’30 dell’Ottocento, l’austriaca Fanny Elssler aveva portato all’Opéra una danza di carattere spagnola con tanto di nacchere, la cachucha – pezzo forte del Diable boiteux di Jean Coralli (Il diavolo zoppo, 1836) – il suo successo era stato tale da mandare in delirio persino l’esigentissimo Théophile Gautier, poi autore del celebre Voyage en Espagne (1843). Nel 1875, tuttavia, quel fervore ispanico, dilagato nel teatro musicale francese per oltre quarant’anni, era ormai venuto a noia. Le ragioni della tiepida accoglienza riservata a Carmen non sono però da ricercare soltanto nell’ispanismo ‘démodé’ – che anzi assumerà una nuova connotazione al volgere del secolo.

Primo fra gli imputati: il soggetto. Bizet aveva già le idee molto chiare quando fu convocato dal direttore dell’Opéra-Comique, Adolphe de Leuven, per la composizione di un’opera in collaborazione con Halévy e Meilhac.3 Agli occhi di chi lo ingaggiava, tuttavia, la novella di Mérimée – pubblicata quasi trent’anni prima – era irrappresentabile: portare nel «teatro delle famiglie […] quel mondo di bassifondi, ladri, zingari e sigaraie» avrebbe significato mettere in fuga il pubblico.4 Senza contare il fatto che la protagonista veniva uccisa per mano del suo stesso amante. Dopo lunghe trattative e reticenze, inframezzate da commissioni per altri teatri, la dirigenza cedette, con la promessa che Carmen sarebbe stata «addomesticata».5 Per edulcorare l’atmosfera, zingari e briganti sarebbero stati dei personaggi da commedia, il finale tragico sarebbe stato smorzato da una festa e una parata, e un nuovo personaggio femminile, angelico e innocente – Micaëla –, sarebbe stato aggiunto a ricalibrare sul piano morale gli eccessi di Carmen. Precauzioni che evidentemente non furono sufficienti.

Quando nell’autunno del 1874 cominciarono le prove, infatti, non tutte le difficoltà erano state appianate. Pare che tutti quanti in teatro avessero voltato le spalle a Bizet: il direttore de Leuven si era dimesso; du Locle trovava orribili le musiche composte; gli orchestrali ritenevano certi passaggi troppo elaborati – lontani com’erano dalle atmosfere di Auber e Adam, a cui erano abituati; i coristi lamentavano poi la dinamicità di certe scene e fu necessario chiamare una decina di aggiunti per rinforzare le fila di soprani e contralti. Mentre per i librettisti, autori di successo, la sola preoccupazione era ormai il botteghino, gli unici appoggi su cui il compositore poté contare furono i suoi interpreti, Paul Lhérie, il primo Don José, e Célestine Galli-Marié, l’interprete di Carmen, con la quale ripensò diverse pagine della partitura – la sua habanera pare sia stata riscritta almeno 13 volte prima di giungere alla versione che conosciamo oggi, tratta dall’allora celebre canzone spagnola El arreglito di Sebastián Yradier. Entrambi i protagonisti minacciarono di rinunciare ai loro ruoli se la versione finale di Carmen, notevolmente rimaneggiata durante il periodo di prova,fosse stata in qualche modo censurata, ipotesi che del resto si ventilava ancora a poche settimane dalla prima.

All’indomani del debutto, la critica metterà sul banco degli imputati la partitura – e lo scarso pubblico alle 48 repliche inizialmente pianificate non smentirà il giudizio a caldo della stampa. Per alcuni la musica di Bizet è troppo wagneriana, per altri confusa e volgare nel suo fragore; c’è chi lo accusa di peccare di drammaticità e chi di povertà melodica. E allora perché soltanto tre mesi dopo, mentre il compositore soccombeva all’ennesimo attacco di angina, la sua Carmen aveva già conquistato Vienna e si apprestava a entrare nel repertorio di molti teatri, per divenire l’opera più rappresentata al mondo? Cosa non sentì (o non volle sentire) il pubblico parigino in quelle serate all’Opéra-Comique? Che cosa rende, insomma, Carmen quel capolavoro che oggi riconosciamo?

Il poeta Théodore de Banville, autore di una delle pochissime recensioni favorevoli all’opera, era stato forse il primo a individuare un aspetto fondamentale nella creazione di Bizet: Carmen non come un’opera di fantocci, ma di «uomini e donne in carne e ossa», per i quali l’orchestra diviene strumento «creativo e poetico».6 E per quanto ancora oggi si fatichi a ricostruire la versione più vicina alle intenzioni di Bizet, non sarà difficile intuire quali siano stati i momenti più folgoranti, quelli in cui la musica interpreta per noi le passioni dei personaggi tanto da renderli così umani.

La sensualità disarmante di Carmen emerge dal contrasto con Micaëla, il personaggio femminile che si fa spazio nella prima scena, tra il coro dei bambini e i soldati. Il suo passo timido ed esitante è tradotto musicalmente dagli archi, e non bastano le lusinghe di Moralès a trattenerla sino all’arrivo di Don José. Il suo rientro avverrà solo dopo l’habanera, quando Carmen ha già gettato il fiore ai piedi di un esterrefatto José che, con Micaëla, si trova ora dinnanzi all’immagine del proprio passato. Nel duetto «Parle-moi de ma mère!», attraverso un lirismo alla Gounod, la fanciulla mette in luce non soltanto la sua dolcezza, ma il suo attaccamento a quei valori che presto verranno sconvolti. E nonostante lo stesso José ceda al ricordo nostalgico della madre e del paesello, avvertiamo già, su una lugubre dissonanza degli ottoni, il principio di quel turbamento che lo porterà a un’irreversibile trasformazione («Qui sait de quel démon j’allais être la proie»). Nel finale del terzo atto, quando Micaëla irrompe nel quartier generale dei contrabbandieri, supplicando José di tornare a casa dalla madre morente, il distacco tra i due è ormai insanabile: sebbene egli accetti di partire, l’ultimo verso è per Carmen («Sois contente, je pars, mais nous nous reverrons») sul funesto ‘tema del destino’ – già sentito nel Preludio dell’opera – mentre fuori scena lo scanzonato motivo del Toréador risuona beffardo. Anche Escamillo, la cui presenza musicale si esaurisce in maniera piuttosto elementare, ha, come Micaëla, la funzione di far emergere il suo rivale in amore, amplificando ulteriormente lo scontro intrinseco al dramma, quello tra Don José e Carmen.

Un’opposizione che, a ben vedere, si risolve in un’unica differenza: mentre l’uno cambia, giungendo a rinnegare non solo la propria professione e i propri valori, ma persino la propria identità, l’altra rimane perfettamente uguale a se stessa dall’inizio alla fine dell’opera. Tale immobilità, quasi paradossalmente, è data dal suo senso spasmodico di libertà: come lei stessa dice, «Carmen è nata libera e libera morirà». Ecco la ragione per cui il suo canto usa espedienti musicali esotici (la seguidilla «Près des remparts de Séville»), materiali preesistenti (l’habanera di Yradier) e ritmi trascinanti che spingono al movimento (la chanson bohème «Les triangles des sistres tintaient»): la sua musica è spavalda, fisica e carnale, quasi mai lirica e intimista come avviene invece per José o Micaëla. Quando accade che il personaggio di Carmen guardi per un attimo alla propria interiorità, ci troviamo di fronte a una sconcertate mise en abyme. Basti pensare al Trio delle carte con Frasquita e Mercédès: la grazia di queste due Parche zingaresche lascia presto spazio ai toni lugubri con cui Carmen si impossessa del mazzo. Vibra il ‘tema del destino’, quando i tarocchi svelano l’immagine della doppia morte e la donna attacca un arioso grave, lento e trascinato, in cui si percepisce chiaramente la vertigine sull’orlo dell’abisso, per ora evitato grazie alla leggerezza riportata dalle gitane.

Quell’abisso ritornerà alla fine dell’opera, intrecciato agli eccessi della Corrida e, indomabile, Carmen lo affronta, non quale esempio di donna emancipata – tema su cui a lungo si è discusso – piuttosto come esempio di coerenza verso la propria indole, natura e anche cultura.7 E quella morte che per un momento, davanti alle carte, aveva temuto, sembra ora più dolorosa per il suo carnefice che non per lei. La pena infatti, per quello che oggi potremmo leggere come un efferato femminicidio e per un Don José in fondo assolto dalla musica di Bizet, sarà la vita. Persa la sua «Carmen adorée», Don José dovrà fare i conti con un uomo che, più di tutto il resto, ha perduto se stesso.

1# La recensione, di Oscar Commettant, è riportata anche da Mario Bois, La trilogie de Seville. Don Juan, Figaro, Carmen, Paris: Marval, 1999, p. 165. La traduzione è mia.

2# Ibidem, p. 166.

3# Ludovic Halévy e Henri Meilhac sono gli autori rispettivamente dei versi e di quei dialoghi in prosa poi riscritti, tagliati e dispersi nei successivi adattamenti di Carmen da opéra-comique a grand-opéra, con i recitativi inseriti da Ernest Guiraud.

4# Il commento è di du Locle. L’episodio è riportato da Susan McClary, Georges Bizet. Carmen, ed. it. a cura di Annamaria Cecconi, Milano: Rugginenti, 2007, p. 23.

5# Sono di questi anni le musiche di scena per L’Arlesienne di Alphonse Daudet (Théâtre du Vaudeville, 1872) e il Don Rodrigue di Louis Gallet ed Edouard Blau (progetto per l’Opéra, poi abortito).

6# Per un approfondimento della rassegna stampa, si veda Winton Dean, Bizet, Torino: EDT, 1980.

7# Si veda in proposito S. McClary, op. cit.e l’approfondimento di Antonio Rostagno in Carmen di Georges Bizet, Milano: Teatro alla Scala, 2009, pp. 88-91.


 

 

 
 
 

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