Il San Carlo celebra il genio di Rossini
Stagione Lirica e di Balletto 2017 - 2018
Giovedì 15 Marzo ore 20.00 - Sabato 17 ore 18.00
Domenica 18 ore 17.00 - Martedì 20 ore 20.00
Gioachino Rossini
Mosè in Egitto
Il Teatro San Carlo di Napoli celebra i 150 anni della morte di Gioachino Rossini con uno tra i nove capolavori che il genio pesarese compose per il Massimo partenopeo. Regia originalissima di David Pountney, cast d’eccezione tra cui Carmela Remigio, Alex Esposito, Giorgio Giuseppini, diretti da Stefano Montanari sul podio dell’Orchestra e del Coro del San Carlo.
In contemporanea al Memus (Museo del San Carlo) una ampia mostra di documenti, autografi, cimeli del Musicista a cura di Sergio Ragni.
Mosè in Egittoandò in scena per la prima volta al San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818, quarta gemma fra i nove capolavori che Gioachino Rossini scrisse nei suoi “anni napoletani”. E il Teatro di San Carlo – giovedì 15 marzo (ore 20.00) - gli rende omaggio a 150 anni dalla morte, con un’edizione del Mosè in Egitto assai originale, a firma di David Pountney per la regia, nell’allestimento - mai presentato in Italia - della Welsh National Opera.
Sul podio dell’Orchestra e del Coro del San Carlo ci sarà Stefano Montanari (Maurizio Agostini 20 marzo) che guiderà un cast di cantanti di acclarata bravura quali Alex Esposito nel ruolo del Faraone, Carmela Remigio in quello di Elcia (il 17 sarà in scena Karen Gardeazabal), Christine Rice che sarà Amaltea, (Arianna Vendittelli il 17 marzo), Osiride che avrà la voce di Enea Scala, Mosè quella di Giorgio Giuseppini (il 17 quella di Goran Juric) Marco Ciaponi (15 e 18 marzo) e Krystian Adam (17 e 20 marzo) che si alterneranno nelle vesti di Aronne, Alisdair Kent sarà Mambre e Lucia Cirillo Amenofi.
Dice David Pountney, celebre regista britannico, nonché librettista di opere tra cui tre di Peter Maxwell Davies “La mia messinscena sarà molto semplice, astratta. Non ci sarà il deserto, e il Mar Rosso sarà evocato da rimandi iconografici. Il palcoscenico è sormontato da due grandi muri, uno rosso e uno blu, colori molto intensi che fanno pensare alle cromìe di Chagall. La sua pittura ha raffigurato molti soggetti sacri. Ma ho voluto evocare anche Rothko, i cui contrasti di colore rappresentano l’eterna lotta antagonistica tra due forze, tra il bene e il male. Ma chi stabilisce dove è il bene e dove il male? Per me quest’opera ci parla sempre di un conflitto tra politica e religione”.
Il Mosé andò in scena al San Carlo per la Quaresima del 1818, e fu ripreso l’anno successivo con il terzo atto modificato, dove comparve quello che diverrà l’emblema dell’opera: la preghiera Dal tuo stellato soglio. Interpreti furono Isabella Colbran (Elcia), oltre ad altri due punti di forza, il tenore Andrea Nozzari (Osiride) e il basso Michele Benedetti (Mosé).
“(…) Il Mosè in Egitto si colloca giusto nel cuore del periodo napoletano di Rossini - dice Bruno Cagli - e di quell’esperienza di rinnovamento dell’opera seria italiana che, iniziata con Otello, doveva concludersi con Zelmira, prima che Semiramide ponesse il suggello alla carriera italiana del compositore. Drammaturgicamente e musicalmente le opere napoletane hanno stilemi propri: soppressione quasi costante, dopo Otello, della sinfonia di apertura, allargamento in qualche caso dell’impianto da due atti a tre, tentativo di superare i numeri chiusi con criteri nuovi. Sono queste solo alcune di quelle caratteristiche delle opere serie napoletane che Rossini non tentò di imporre nelle coeve produzioni per gli altri teatri italiani. E non è casuale che, dovendo alcuni anni dopo cercare un raccordo tra il nuovo corso della sua produzione in Francia e il suo vecchio repertorio, egli si sia rivolto proprio a due opere napoletane, Mosè in Egitto e Maometto II che, per il soggetto e la struttura, gli permettevano di inserirsi agevolmente nell’ambito del nascente grand-opéra”.
Giovedì 15 Marzo ore 20.00 - Sabato 17 Marzo ore 18.00
Domenica 18 Marzo ore 17.00 - Martedì 20 Marzo ore 20.00
Gioachino Rossini
Mosè in Egitto
Direttore | Stefano Montanari / Maurizio Agostini (20 marzo)
Regia | David Pountney
Scene | Raimund Bauer
Costumi | Marie-Jeanne Lecca
Luci | Fabrice Kebour
Assitente alla Regia | Polly Graham
Faraone, Alex Esposito
Amaltea, Christine Rice / Arianna Vendittelli (17 marzo)
Osiride, Enea Scala
Elcia, Carmela Remigio / Karen Gardeazabal (17 marzo)
Mambre, Alisdair Kent
Mosè, Giorgio Giuseppini / Goran Juric (17 marzo)
Aronne, Marco Ciaponi (15 marzo, 18 marzo) / Krystian Adam (17 marzo, 20 marzo)
Amenofi, Lucia Cirillo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Allestimento della Welsh National Opera
Sergio Ragni
FURORE NAPOLETANO
Cronache epistolari delle “prime” di Rossini al San Carlo
Rossini giunse a Napoli sul finire di giugno 1815. Il suo arrivo, programmato già da qualche tempo, subì un ritardo causato dall’incertezza della situazione politica. A Bologna Rossini, sulle orme patriottiche paterne, aveva inneggiato a Murat anche perché convinto di doverlo trovare di lì a poco sul trono napoletano. La disfatta dell’eroico Gioacchino e il rientro di Ferdinando da Palermo dovevano invece tenere in fibrillazione il nostro Gioachino, molto meno ardimentoso dell’omonimo francese.
Ottenuto il via libera da Barbaja, anche lui messo alla prova dal repentino cambio di governo, Rossini il 27 giugno può scrivere finalmente alla madre: «Sono giunto felicemente in Napoli. Tutto è bello, tutto mi sorprende» e qualche giorno più tardi: «Se volessi farvi la descrizione di Napoli sarei troppo imbarazzato, mentre vi sono tali e tante cose che assolutamente pongono il vostro caro figlio nel caso di non parlarne nel timore di dir troppo poco per il merito che hanno». Il ventitreenne musicista, abbagliato dall’ampiezza splendente del golfo e dalla magniloquenza del più grande teatro al mondo, infervorato dall’effervescenza della capitale cosmopolita, entra subito nelle grazie dell’impresario milionario e si introduce con disinvoltura nei salotti della più alta aristocrazia. «Io Stò benone e mi Diverto», «pranzo continuamente da Barbaglia», «Io sto divinamente sono sempre da Duchi, Principi, e Principesse». Chi l’avrebbe mai detto che prima ancora di debuttare in teatro la sua musica avrebbe furoreggiato nei salotti bene e benissimo della città? Rossini non si risparmia e fa sentire in anteprima a chi già può annoverare tra amici e ammiratori la musica della sua Elisabetta regina d’Inghilterra.
A impersonarla sarà la primadonna per eccellenza del San Carlo: la spagnola Isabella Colbran, destinata ad occupare gran parte dell’universo armonico di Rossini e della sua vita privata. Isabella e il suo indivisibile padre Juan hanno già conosciuto Rossini a Bologna e si sono prodigati per incentivare la sua venuta a Napoli. La Colbran, grande tragédienne, è diventata a Napoli l’interprete ideale delle eroine di Giovanni Simone Mayr, musicista tedesco naturalizzato italiano, unanimemente riconosciuto come il più autorevole compositore di opera seria operante in Italia. La sua Medea in Corinto, scritta appositamente per la Colbran, rimarrà per molti anni un impegnativo traguardo raggiungibile soltanto da primedonne d’alto rango. Ancor prima di cimentarsi nel ruolo di Elisabetta, fatto su misura per la sua prestanza fisica e per le sue eccezionali doti di cantante e di attrice, Isabella introduce la musica di Rossini sul palcoscenico del San Carlo, chiedendo al giovane maestro di rivedere, in funzione delle proprie prerogative vocali, l’aria “Serbo ancora un’alma altera”, chiave di volta del ruolo di protagonista nella Morte di Semiramide di Sebastiano Nasolini. La Colbran la esegue al San Carlo nella sera del 16 agosto. Rossini, affascinato dalla sua interpretazione, immagina già di poter un giorno dedicare alla Colbran non più soltanto la sezione d’un’aria ma tutta un’opera ispirata alle gesta della regina babilonese.
Rossini è arrivato da mesi ma la stampa ignora la sua presenza in città. Solo poco tempo prima dell’andata in scena di Elisabetta il redattore del Giornale delle Due Sicilie si degna di dar notizia dell’arrivo a Napoli di «un tal Signor Rossini maestro di cappella che si dice venuto per dare una sua Elisabetta Regina d’Inghilterra su questo stesso teatro di S. Carlo, che risuona ancora de’ melodiosi accenti della Medea e della Cora dell’egregio Signor Mayer».
Ultimo degli artisti elencati nell’articolo, Rossini, a scorno plurisecolare del giornalista prevenuto, avrebbe presto raggiunto la prima postazione assoluta nell’interesse e nella curiosità dei lettori.
La scelta del soggetto di Elisabetta regina d’Inghilterra era finalizzata a propiziarsi il favore del vecchio sovrano restaurato. Ferdinando si era subito reso conto dell’alto livello raggiunto dagli spettacoli del San Carlo grazie alle capacità imprenditoriali di Barbaja. I primi spettacoli che aveva visto: Medea in Corinto, Cora, La vestale, esemplificavano a sufficienza l’eccellenza della compagnia di canto e delle masse artistiche. In ossequio al favore dimostrato da Ferdinando la prima opera nuova da rappresentarsi al San Carlo dopo il suo rientro doveva essere il suggello dell’intesa tacitamente raggiunta con l’impresario e la compagine artistica scritturata dall’usurpatore.
L’immagine d’un sovrano, il cui potere illuminato e assoluto s’accompagna alla magnanimità e al perdono, sembrerebbe fatto apposta per commuovere ed esaltare il vecchio re Ferdinando, obbligato per altro dalle disposizioni del congresso di Vienna a tralasciare qualsiasi tentazione, o tentativo di rivalsa.
La scelta dell’opera era facilitata dalla circostanza che Isabella, prima d’essere regina per Rossini, lo era stata già per Stefano Pavesi a Brescia, protagonista della sua quasi omonima Elisabetta d’Inghilterra rappresentata al Teatro Grande nell’estate 1812.
Per la sua opera d’esordio Rossini aveva deciso di utilizzare buona parte della musica che in Aureliano in Palmira, rappresentata alla Scala nel 1813, non aveva incontrato il favore dei milanesi, all’epoca tutti presi dal contemporaneo incredibile successo di Tancredi al Teatro Re.
Rossini è ben consapevole che quella musica merita un più attento ascolto.
Il mordente che le vicende di una regina più moderna della palmirense Zenobia possono suscitare nelle aspettative del pubblico napoletano sicuramente illuminerà di nuova luce anche la musica.
Rossini è sicuro della sua validità e sicuro della capacità degli artisti destinati ad eseguirla. La compagnia, «la Colbran, la Dardanelli, Nozzari, Garzia etc. non può esser migliore» scrive Rossini alla madre. L’unica sua apprensione è la poca dimestichezza che ha col librettista Giovanni Schmidt: «Il Poeta è un po’ freddo ma la musica sarà calda».
Qualche apprensione fu vissuta anche da Barbaja che si era impegnato a rappresentare l’opera per il 4 ottobre, giorno onomastico dell’erede al trono Francesco. Ritardi nella concertazione dell’opera sembrano mettere in pericolo l’osservanza dell’impegno. Il focoso Manuel Garcia, non più protetto dall’amico Murat, è ai ferri corti con Barbaja e minaccia di non cantare. Convinto con le buone o con le cattive a partecipare all’esecuzione, terminate le recite di Elisabetta, Garcia abbandonerà per sempre Napoli.
L’esito dell’opera è trionfale e Rossini, beato, così ne informa i genitori: «Finalmente è andata in scena la mia Elisabetta e questa ha fatto fanatismo. La corte che era in teatro se ne andò dopo l’opera per dare sfogo al pubblico che non poteva più frenare il silenzio e, ravvisata che fu, una rivoluzione d’applausi e finalmente chiamato sul palco scenico dove sono stato 8 minuti per ricevere gli evviva [...] La compagnia e l’orchestra me l’hanno eseguita a meraviglia». E nella successiva lettera scrive a caratteri cubitali: «Furore», annunciando un successo che più caloroso non avrebbe mai potuto immaginare, sul palcoscenico più prestigioso d’Italia. «Oh! Che musica, Oh! Che musica dice Napoli. Non è possibile ch’io vi spieghi qual sia l’entusiasmo prodotto costì dalla mia musica».
Isabella Colbran, in assenza di sovrane, diventa lei la regina dei napoletani. Scrive Stendhal, che la vide nella recita del 25 febbraio 1817: «Jamais peut#être cette chanteuse ne fut si belle. C’était une beauté du genre le plus imposant: de grands traits, qui à la scène, sont superbes, une taille magnifique, un oeil de feu à la circassienne, une forêt de cheveux du plus beau noir#jais, enfin l’instinct de la tragédie. Cette femme [...] dès qu’elle paraît le front chargé du diadème, frappe d’un respect involontaire». Il pubblico le grida «Tu sei la regina da vero».
Rossini non la pensa diversamente e nel corso delle recite scriverà ai genitori: «La Mia Elisabetta che Continuamente si dà è l’Onore dell’Italia. La Colbran La rapresenta come un Dio».
Elisabetta regina d’Inghilterra è il primo capitolo di uno studio che continuerà fino al termine della carriera italiana di Rossini, e che gli consentirà di mettere a punto diversi modelli di opera seria. Uno studio che investirà i diversi generi e le diverse ambientazioni; una sorta di trattato sul melodramma moderno, che tutti i compositori a venire troveranno assai comodo consultare.
Il conflitto tra i doveri regali e la passionalità dei sentimenti della donna innamorata sarà motivo d’ispirazione per le figure romantiche di regine inglesi, care al genio di Donizetti, che addirittura farà comparire il carattere di Elisabetta in ben tre suoi melodrammi, tutti derivanti dal solco tracciato da Rossini.
Come avverrà per tutte, o quasi tutte, le opere scritte per Napoli Elisabetta sarà immediatamente richiesta anche all’estero, vuoi l’estero “italiano”, vuoi l’estero “europeo”. Elisabetta regina d’Inghilterra verrà tradotta e rappresentata dopo qualche anno persino ad Amsterdam.
Partendo per Roma, dove lo attendono le mirabolanti avventure della prima del Barbiere di Siviglia, Rossini porta con sé il contratto per scrivere un’opera per il Teatro dei Fiorentini e un’opera per il San Carlo, «per il venturo anno teatrale». Mentre lavora a Roma lo raggiunge la notizia dell’incendio del San Carlo. L’infausto avvenimento per un momento sembra vanificare i suoi progetti. L’impatto che ha avuto con la perfetta macchina teatrale del San Carlo, con la sua orchestra capitanata dall’eccellente primo violino Giuseppe Festa e una compagnia di canto introvabile altrove, non lascia alternative al genio del musicista. Solo a Napoli, con gli inesauribili mezzi che gli mette a disposizione l’impresario, già perdutamente innamorato di lui, potrà continuare a scrivere «Musica degna di Rossini».
I suoi timori durano lo spazio di pochi giorni. Barbaja si fa subito carico della ricostruzione del teatro. Il nuovo edificio, immutato nella sua mole maestosa, sarà ancora più sfolgorante di ori e di decorazioni. Il «susceptore Barbaja», come si legge sulla medaglia commemorativa della ricostruzione, ne approfitterà anche per dotarlo dei più moderni e sofisticati macchinismi teatrali.
Mentre ferve la ricostruzione l’attività non si ferma e il Teatro del Fondo deve da solo fronteggiare tutte le evenienze.
La musica di Rossini, che già al San Carlo il 12 gennaio aveva celebrato il genio borbonico in occasione del sessantacinquesimo compleanno del re, deve ora con una più estesa composizione festeggiare le nozze per procura di Maria Carolina, figlia dell’erede al trono Francesco, con il duca di Berry. «Ho Scritta la Cantata Per Le Nozze del Principe reale» scrive Rossini ai genitori senza dilungarsi in dettagli. Le nozze di Teti e di Peleo vanno in scena il 24 aprile 1816. Le armonie celestiali di Gioachino e l’apparato spettacolare, garantito dall’appaltatore Barbaja, nulla potranno contro il destino tremendamente infausto di entrambi i coniugi.
Nell’estate Rossini deve dividere la sua ispirazione tra due opere diametralmente opposte: La gazzetta e Otello. Nella prima, che rientra nella tradizione della più tipica commedia napoletana, Rossini dovrà confrontarsi con la vis comica di Carlo Casaccia, detto Casacciello, ultimo, per il momento, rappresentante di una famiglia di specialisti del ruolo di buffo napoletano in contrapposizione al buffo toscano. «L’opera dei Fiorentini Intitolata La Gazzetta ha fatto un Furore, e tutti sono Sorpresi come abbia io potuto mettere in Musica Il dialetto Napolitano con tanta facilità e effetto», scrive Rossini all’indomani della prima. Più tardi si divertirà, ogni volta che se ne presenterà l’occasione, a colloquiare in napoletano con chi, come lui ormai, bene lo comprende. Nel 1831 a Madrid, infrangendo qualsiasi etichetta, in stretto idioma partenopeo si rivolgerà a Maria Cristina di Borbone delle Due Sicilie, conosciuta a Napoli e divenuta nel frattempo regina di Spagna. Nello stesso anno a Parigi scambierà frizzi e lazzi dialettali con Maria Malibran, che a Napoli c’è stata da bambina.
Il primo accenno di Rossini alla composizione di Otello risale al 15 maggio 1816 quando informa così la madre: «L’Ottello che sto scrivendo sarà magnifico e certamente accrescerà la mia riputazione se però è possibile di sorpassare il cielo». L’incarico di Otello lo appassiona certamente di più che non l’opera buffa e di conseguenza lo impegna moltissimo. «Io non mi ricordo d’aver faticato tanto» scrive quasi affranto alla madre, mentre è costretto di continuo a rimandare la consegna della partitura. Barbaja, disperato, si vede obbligato ad informare le autorità che la causa del ritardo della rappresentazione è di esclusiva colpa del compositore: «Secondo rilevasi dal Copista egli non ha composto che la parte semplice del canto di una romanza, e di un duetto d’introduzione. Ancorché avesse in sua fantasia tutto l’emisfero cromatico non le resterebbe campo di spargerne l’armonica distribuzione sulle sublimi parole del degno Sig.r Marchese Berio». Invece «l’emisfero cromatico», messo in discussione da un Barbaja inopinatamente spiritoso, produce i suoi celestiali frutti, a cominciare proprio da quella sublime “romanza” o “canzone del salice”, unicum nel firmamento del melodramma ottocentesco italiano. Otello va in scena al Teatro del Fondo il 4 dicembre 1816.
La recita lascia senza fiato gli spettatori e lascia Rossini quasi sbalordito del risultato raggiunto: «Spero avrete sapute le notizie dell’Opera Immensa Otello andata in scena il 3 del presente che chiasso, che capo d’opera, io certamente mi sono superato in maniera che dubito qualche volta di essere l’autore di una cosa tanto Clasica». Così Rossini ai genitori qualche giorno dopo la prima. Appena terminata la recita anche il duca di Noja, soprintendente dei teatri, decide di infrangere una prassi inveterata, complimentandosi ufficialmente con l’autore: «Se la musica di cui fregiaste l’Elisabetta ottenne un completo successo, quella, che ora adorna il nuovo Dramma Otello, può essere superba di un totale trionfo. Voi filosofo de’ cuori, conciliando le leggi armoniche colla verità dell’espressione, avete saputo servir perfettamente agli affetti, che destar voleva l’autore del dramma, ed il genio animatore della musica, che in voi fervidamente signoreggia. Io ve ne attesto la mia soddisfazione, e mi auguro che il vostro ingegno possa corredare in prosieguo il nostro teatro drammatico di altre sue belle composizioni».
La notizia dello strepitoso successo dell’opera, tragica quante altre mai, varca immediatamente i confini del regno delle Due Sicilie e viene subito richiesta e replicata ovunque. L’opera costituì per decenni l’impegnativo banco di prova di soprani e tenori. Nell’Ottocento Otello è stata l’opera seria più rappresentata in assoluto in Europa.
Nel 1817 Rossini s’innamora. Come si conviene a giovinetto assai precoce è stato sempre attratto da donne più grandi di lui: esemplari in tal senso, tra le innumerevoli trascorse fiamme, la pittrice Carlotta Gargalli, la cantante Marietta Marcolini, la nobile Amelia Canziani vedova Belgioioso. Quest’ultima, la più recente, ha otto anni più di lui. Tanti ne ha anche Isabella Colbran che nell’immaginario di Rossini, fin da quando l’ha conosciuta a Bologna nel 1807, costituisce l’utopia da raggiungere: la Bellezza, la Ricchezza, la Fama, la Musica nella sua massima espressione. Rossini dopo averla vista sulla scena è totalmente preso dalla sua persona e dalla sua bravura. A luglio se ne va con lei e qualche altro amico a Ischia, nel palazzo che Barbaja possiede a Casamicciola. Il passaggio dal ritmo frenetico della città alla quiete isclana è brusco: «Eccomi ad’Ischia Paese Noiosissimo ma La Società della Colbran e degli amici che abbiamo in casa ci fa passare meno male il tempo». Mentre si sottopone alle cure termali scrive anche la nuova opera: «Ho principiata L’Armida il Sogetto è bello voglio sperare che pure La musica sarà tale»: Armida è l’omaggio di Rossini alla donna che ama e alla Musa che lo ispira. Isabella sarà l’unica femmina sulla scena e dovrà confrontarsi con un intero esercito di crociati. L’opera va in scena il 9 novembre. Il giorno dopo Juan Colbran ne informa Giuseppe Rossini: «Che musica Angelica non avette unidea il furor che afatto il Re estato esubito lui isteso a Batutto li mani etutto il Publico era fora di se atanti a Plausi, ben meritati». Rossini di suo pugno aggiunge: «Il Maestro Vostro Figlio è Imerso nella Gloria».
Nella carriera di un musicista, consapevole di poter essere un giorno annoverato tra i grandi della Storia della Musica, Rossini è convinto che una tappa fondamentale debba essere la composizione di un oratorio.
La sua frequentazione giovanile di musica ecclesiastica, insieme alle sue prestazioni come interprete di musiche d’ispirazione sacra tra le quali la Passione di Nostro Signore Gesù Cristo di Padre Stanislao Mattei, e la direzione delle Stagioni di Haydn all’Accademia dei Concordi di Bologna, gli indicano con insistenza quella meta obbligata che già nel 1812 ha tentato componendo a Ferrara Ciro in Babilonia. Poco soddisfatto di quella sua prima prova tenta invano di realizzare un secondo progetto oratoriale al Teatro Valle di Roma.
L’occasione che gli prospetta il San Carlo di scrivere per la Quaresima 1818 «un Oratorio in Grande» lo trova entusiasta. Rossini lavora con passione e il 13 febbraio può scrivere alla madre: «Ho quasi terminato l’Oratorio e va benone. E’ di un genere però Elevatissimo, e non so se questi mangia Macheroni lo capiranno». Dieci giorni dopo non ha ancora completato il lavoro sul quale tanto deve poggiare il riconoscimento della sua dottrina musicale: «L’Oratorio mi costa assai fatica perché di un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime e fatto per acrescere la mia Radicale Riputazione».
L’esito della prima rappresentazione è trionfale e coinvolge anche il recensore: «Un canto semplice, naturale, sempre animato da espressione vera e da gratissima melodia; i più grandi effetti dell’armonia sobriamente adoperati nel terribile e nel patetico; un recitativo rapido, nobile espressivo; cori, duetti, terzetti, quartetti ec. egualmente espressivi, toccanti, declamati: ecco i pregi di questa nuova musica, in cui il compositore si è innalzato alla sublimità del suo argomento, per il quale egli è sommamente debitore al poeta». Al termine dell’opera Rossini, chiamato in palcoscenico, condivide con la Colbran il trionfo: «Madame Colbran e il Maestro venivano Sul Palco Scenico a ricevere gli aplausi spuntanei di un Publico che essendo il più dotto d’Italia fa piacere il meritarli». Il successo che gli tributano i napoletani è tale che nell’opinione di Rossini da «mangia Macheroni» passano immediatamente al rango di pubblico più competente d’Italia. Nonostante il successo l’opera viene replicata per sei sole recite, probabilmente per volontà dello stesso Rossini che alla prova d’ascolto dell’opera in teatro si rende conto della possiblità di perfezionamento della partitura. L’infelice realizzazione scenica del passaggio del Mar Rosso potrebbe averlo ulteriormente incentivato a revisionare per la ripresa sancarliana dell’anno successivo l’intero terzo atto dove troverà posto la celebre preghiera. Ancora non del tutto appagato Rossini riterrà l’opera suscettibile di assumere una dimensione ancora più «biblica» rielaborandola per il palcoscenico dell’Académie Royale de Musique di Parigi.
Nel marzo 1818 annunciando alla madre che accompagnerà la Colbran a Bologna, Rossini con nonchalance getta lì un paio di frasi per cominciare a tastare il terreno circa il parere dei genitori e del padre di Isabella su un loro ipotetico matrimonio: «Mi scordavo di dirvi che la Musica dell’Oratorio è Divina e che sono per Sposare la Colbran Salutate suo padre e ditele questa notizia».
Viaggiando verso Bologna Rossini comincia a studiare il libretto della sua prossima opera. Scrive a Barbaja: «Vi raccomando Il Mio Second’atto. Io Leggo Strada Facendo Il Primo, e spero riescirà bene». L’opera è Ricciardo e Zoraide, che il marchese Berio ha tratto dal Ricciardetto di Niccolò Forteguerri.
Prima di andare in scena con la sua nuova opera Rossini deve però incaricarsi di adattare alla voci della compagnia del San Carlo le parti di Lodoiska di Mayr. Il suo intervento più significativo, come riporta il Giornale, è «un’aria espressamente scritta per la Signora Colbran, e da questa egregia donna con la solita bravura eseguita».
Anche la prima di Ricciardo e Zoraide subisce qualche rinvio: prima per una caduta della Colbran in corso di prova generale, poi per un’indisposizione del tenore Giovanni David. Rossini ha già fatto sentire l’opera in privato agli amici e può dire ai genitori, prima ancora di andare in scena: «questa al dire di tutti è La meglio Opera ch’io m’abbia fatta vedremo il pubblico in apresso che ne dirà». E veramente, pur essendo la meno bella delle opere napoletane, il pubblico di allora decreta il successo forse più sensazionale tra quelli ottenuti dal compositore. Scrive Rossini «L’Esito della mia Opera fu il più Brillante ch’io ebbi da poi che fo il Maestro Godete adunque di questo nuovo sucesso perché se la fatal sorte vuole ch’io non possa vivere a voi vicino abbiate almeno la compiacenza nel sapermi felice da voi Lontano». Anche la critica del Giornale delle Due Sicilie per segnalare l’eccezionalità della nuova creazione di Rossini scomoda addirittura Cimarosa e gli fa dirigere dal mondo dei trapassati una lettera di encomio al vivo e vegeto autore di Ricciardo e Zoraide.
Il quale, mentre è ancora alle prese con la composizione di quest’opera, la più tranquilla delle partiture napoletane, ha già incominciato a progettare quella che sarà invece la più turbolenta di tutte. Il dramma dell’incomunicabilità di Andromaque di Racine diventa, nella versione di Andrea Leone Tottola per Rossini, Ermione, in osservanza delle prerogative della prima donna assoluta dei Teatri Reali, Isabella Colbran.
Andromaca è il contralto Rosmunda Pisaroni, celebre, oltre che per la sua voce eccezionale, per la sua proverbiale bruttezza. I tenori sono i soliti antagonisti Andrea Nozzari e Giovanni David.
La composizione dell’opera impegna moltissimo il suo autore. «Io scrivo come un’Anima dannata e Spero di Superare e Morti, e Vivi» scrive alla madre il 9 gennaio, ma quindici giorni dopo è arrivato quasi a compimento: «Sto abbastantemente avanzato colla mia Ermione Temo che il sogetto sia troppo tragico, ma poco me ne importa ormai posso dire che è fatto il becco all’Oca», espressione che significa “ormai è fatta”. Rossini pensa al padre: «s’egli sentisse questa nuova complicatissima musica» ripeterebbe ancora una volta gli incoraggiamenti che, compiaciuto per i suoi progressi, gli faceva da piccolo: «lassé che fazza agli Eli epù e vularà e pover babaen», sarebbe a dire: “aspettate che gli crescano le ali e poi il povero bambino spiccherà il volo”.
Effettivamente il volo che spicca Rossini con Ermione è tanto alto che gli spettatori del San Carlo, il pubblico più dotto d’Italia, per citare Rossini, ne restano quasi sgomenti, incapaci di seguirlo fino a questa altezza.
Solo il critico del Wiener Zeitschrift für Kunst, Literatur, Theater und Mode sembra notare che le «situazioni drammatiche, ben delineate, erano altrettanto bene realizzate», e che Rossini accoppiando «uno stile rigoroso alla genuina espressione dei sentimenti» ottiene una combinazione «incredibilmente bella».
L’opera, difficilissima, ebbe cinque sole repliche con il prosieguo di due esecuzioni del solo primo atto nelle sere del 18 e 19 aprile 1819, né fu ripresa in alcun teatro se non in epoca moderna.
Con quest’opera Rossini assurge al traguardo di una delle più significative, avveniristiche composizioni dell’intero panorama melodrammatico ottocentesco. Con buona pace di musicisti, più o meno illustri, italiani e stranieri, ancora infanti nel 1819.
Prima di partire per Venezia dove deve mettere in scena Eduardo e Cristina, Rossini consegna a Barbaja la musica della cantata che nella sera del 9 maggio dovrà celebrare l’arrivo a Napoli dell’imperatore d’Austria Francesco I.
Due giorni prima dell’arrivo di «Sua Maestà Cesarea Reale ed Apostolica» giunge a Napoli anche il principe di Metternich il quale rimane folgorato dalla bellezza della sala del San Carlo e dalla magnificenza della musica di Rossini eseguita incomparabilmente. A Napoli c’è pure il librettista e scenografo Gherardo Bevilacqua Aldobrandini che così descrive «Al padre del più gran Genio Musicale del Mondo», alias Giuseppe Rossini padre di Gioachino, l’attività del Teatro di San Carlo: «Ora si fanno successivamente, La Elisabetta, Ricciardo e Zoraide, unitamente al Mosè, e all’opera di Caraffa la Gabriella. Non so in qual Teatro oggi di possano Combinarsi 4. Prime Donne, Colbran, Pisaroni, Dardanelli, Sciabran, 4.Tenori, Nozzari, David, Rubini, Ciccimarra, 4. Bassi, Porto, Benedetti, Ambrosi, Chizzola che formano il complesso di 12. Valevoli Artisti». Prosegue quindi riportando l’opinione dei diversi sovrani presenti a Napoli sulla musica di Rossini: «Li Sovrani d’Austria sono rimasti sorpresi di tanto Spettacolo. Il Ré di Napoli ha dato parecchie feste, a Capodimonte, ed a Palazzo. Io ho avuto la sodisfazione d’intervenirvi. Ed ho inteso co’ miei orrecchi il ré di Sassonia dire con il Ré di Napoli, che la Musica d’oggidi è alquanto guastata dalla eccedente istromentatura. Il Ré di Napoli a lui rispose, che Ciò era succeduto solamente dopoché Mozart, ed in Conseguenza i Tedeschi han riformata La musica in Italia: Ma proruppe Meternik con enfasi, e disse = Rossini è il solo che piace con tutto ciò; - Egli è il vero Genio musicale del Mondo, al che tutti dissero Si .».
Dall’ammirazione di Metternich per la musica di Rossini e lo sfarzo degli spettacoli del San Carlo nascerà il progetto della trasferta del teatro a Vienna nel 1822.
Quando Rossini rientra a Napoli deve affrontare incarichi ancor più gravosi dei precedenti. Dal 1° aprile è diventato infatti socio di Barbaja sia nella privativa dei giochi d’azzardo che nell’impresa teatrale. Rossini ottiene la qualifica di “direttore della musica” che in via ufficiale gli conferisce l’incarico della supervisione dell’intera produzione dei Teatri Reali. Le tante incombenze gli fanno trascurare la corrispondenza con i genitori. L’11 giugno scrive alla madre «Mi Scuserete se non prima d’ora vi ho date mie notizie ma Le mie atribuzioni sono tante, e tali che non mi danno un momento di Libertà».
Avvertendo la necessità di variare il panorama artistico Rossini procede alla scrittura di elementi nuovi che uniti a quelli stabili della compagnia di canto permetteranno di variare programmi e repertorio. Egli stesso avvalendosi di nuovi artisti, di registro diverso da quelli già scritturati, potrà allargare i suoi orizzonti e la sua ispirazione.
L’8 ottobre Rossini comunica alla madre: «Ho terminata La Mia Opera che porta il titolo La Donna del Lago il Sogetto è un po’ Romantico ma mi pare d’Effetto, Speriamo in dio che anderà Bene». Rossini si è ispirato questa volta al poema di Walter Scott che il librettista Andrea Leone Tottola ha dovuto rielaborare in funzione melodrammatica. Rossini è affascinato dall’ambientazione inconsueta e dall’aura romantica che ha deciso di dover includere nei suoi piani di sperimentazione.
Per accentuare la tematica ossianica Leone Tottola ricorre al libretto della disgraziatissima Aganadeca, opera di tal Carlo Saccenti, napoletano, che il ministro dell’Interno due anni prima aveva imposto per la riapertura del San Carlo a tutela del prestigio nazionale.
Forse proprio il ricordo dell’infausta rappresentazione di Aganadeca condiziona le aspettative del pubblico che non riesce a individuare il marchio di fabbrica “Rossini” se non nel finale dell’opera. Il pubblico a rappresentazione compiuta cerca di rimediare festeggiando la primadonna. Anche Rossini è chiamato in palcoscenico ma è tale il suo disappunto che rifiuta di presentarsi. Quando un inserviente lo sollecita Rossini gli sferra un cazzotto ed esce furibondo dal teatro. Questo almeno racconta un suo accreditato biografo.
Anche il recensore del Giornale del Regno delle Due Sicilie deve quasi scusarsi per non essere riuscito a cogliere tutta l’importanza della nuova partitura: «Alla bellezza delle decorazioni; alla magnificenza del vestiario; alla folla sempre crescente di armi e di armati, di cantori e di suonatori di ogni specie, io rimasi iersera così da meraviglia sorpreso che, - Com’uom che tutto è nella vista assorto, - sarei uscito dallo spettacolo, senza poter dir motto né della composizione musicale, né della sua esecuzione. Se non che, quasi all’abbassar del sipario, poche magiche note dell’egregia Signora Colbran ridestarono in me la sopita sensazione dell’udito, e mi vennero ad avvertire del torto che avea avuto di non prestare tutta l’attenzione ad una musica, la quale forse mi obbligherà a riconoscerla finalmente come una delle più vaghe figlie del fecondo pesarese».
Gli sconvolgimenti politici che nel 1820 si registrano a Napoli in seguito all’insurrezione spagnola costringono Ferdinando, il 13 luglio, a proclamare la costituzione. Gli eventi, pur non compromettendo la prosecuzione dell’attività teatrale, ne modificano profondamente l’organizzazione. La fonte di reddito derivante dall’impresa dei giochi, di cui anche Rossini è stato fatto socio per volontà di Barbaja, si azzera in seguito alla forzata chiusura dei ridotti.
Rossini con olimpica serenità scrive alla madre: «Qui tutto è tranquillo: il nostro buon Sovrano ha firmata la costituzione, e vi assicuro che i Napoletani anno fatta un’azione Inarivabile: io me la godo à tutta forza del termine», e ancora: «Probabilmente si leveranno i Giochi costà, e questo mi è indiferentissimo», ma conoscendo gli interessi di Rossini per le finanze c’è poco da credergli!
In agosto arriva un nuovo cantante che Barbaja ha scritturato su indicazione di Rossini, il basso Filippo Galli che già si è reso celebre interpretando per primo molte sue opere: L’inganno felice, La pietra del paragone, L’italiana in Algeri, Il turco in Italia, Torvaldo e Dorliska. Uno specialista dunque al quale Rossini vuole affidare la titolarità di un altro personaggio importante. Il 17 ottobre Rossini scrive ai genitori: «Io stò perfettamente e ho giò finita la mia opera il Maometo che spero non sarà inferiore alle altre».
Il duca#letterato, artefice del libretto di Maometto Secondo, dicesi sia personaggio del quale non bisogna fare il nome. Si dice pure che Rossini nel comporre l’opera abbia tenuto sempre la mano sinistra posizionata in modalità scaramantica, atteggiamento che più tardi Rossini indicherà anche nella diteggiatura d’un brano pianistico dedicato a un suo celebre collega francese. Azevedo, scrupoloso biografo di Rossini, specifica pure che tutti gli amici vanno a fargli visita per osservarlo «tout en écrivant sans relâche de la main droite et en faisant les cornes de la gauche». Rossini si concede di distendere le dita solo quando scrive «les autres passages de musique purement instrumentale, dont la poésie du prétendu jettatore était nécessairement absente».
Rossini scrive per Galli un ruolo assai importante e gli concede anche il titolo dell’opera ma le pagine più significative e emozionanti sono tutte per la protagonista femminile, ancora e sempre Isabella Colbran. La sua grandiosa scena finale, nella quale giunge al gesto estremo del suicidio per amor di patria, costituisce uno dei momenti più drammatici di tutto il melodramma di Rossini.
Anche quest’opera sarà più volte rimaneggiata dal suo autore: una prima volta per il Teatro La Fenice di Venezia, in cui verranno espunte le situazioni più violente, e una seconda per il palcoscenico dell’Académie Royale de Musique, dove verrà completamente rielaborata e chiamata Le siège de Corinthe.
Nei primi mesi del 1821 Rossini e Isabella sono indaffaratissimi. Mentre lui compone la sua ultima opera napoletana e mentre lei la impara debbono entrambi inviare ai genitori di lui le istruzioni per sistemare la villa di proprietà Colbran a Castenaso. In gran segreto hanno deciso di sposarsi e lì, nella campagna bolognese, convocheranno, a sorpresa, pochissimi amici per i festeggiamenti.
La rappresentazione di Zelmira, messa in cantiere fin dalla prima settimana di ottobre, costituirà l’ultimo appuntamento della Colbran e di Rossini con il pubblico napoletano. Il 5 febbraio Rossini può scrivere alla madre: «Io ho Finita la Mia Opera, e Spero che il Successo sarà corrispondente al merito d’essa cio che mi conforta è la certezza di aver Scritto bene del resto poco mi curo».
L’opera su libretto di Andrea Leone Tottola è tratta da una tragedia francese di de Belloy che nell’eroina del titolo fa convergere quelli che Rossini scorge come i connotati della donna che sta per impalmare. Zelmira è la matrona che protegge il marito, il figlio e il suocero. Nei soggetti che Rossini intende affidare alla tutela dell’ormai prossima legittima sposa mancherà il figlio ma si aggiunge subito anche la suocera. Isabella molto più ricca dello sposo provvederà volentieri per tutti.
Zelmira, ultima opera rappresentata a Napoli, è stata scritta per essere il titolo vessillifero della trasferta a Vienna che l’intera compagine del San Carlo si appresta a compiere. L’esito sarà trionfale per tutti.
Nelle prospettive del furore d’oltralpe Rossini, dopo aver ringraziato con la cantata La riconoscenza il sovrano che tanto si è appassionato alla sua musica, lascia Napoli. Vi tornerà ancora una volta solo nel 1839 per salutare l’amico Barbaja.
La sera dell’ultima recita dell’opera il vecchio Ferdinando torna di nuovo al San Carlo per salutare, per l’ultima volta, Rossini e gli artisti in partenza.
«Jeri Sera S. M. onorò di sua presenza il real teatro di S. Carlo. Era l’ultima rappresentazione del bel dramma del maestro Rossini, Zelmìra; ed insieme l’ultima comparsa che facevano per quest’anno su le nostre scene i celebri cantanti Signora Colbrand, e Signori Nozzari, David ed Ambrogi, i quali tutti si recano in Vienna ove lo stesso dramma sarà esposto in quell’I. R. teatro. S. M. in fine della rappresentazione si benignò dare al maestro ed ai cantanti che partivano lusinghieri segni di gradimento; e tutto quel vasto recinto echeggiò allora di vivi e continui plausi: gli attori furono richiamati su la scena, ed ottennero dal pubblico favore quell’addio ch’è il più caro e desiderato compenso delle anime generose, quell’addio che fa dimenticare il dolor della partenza con la piacevole immagine del futuro ritorno. Cosi i vincitori d’Olimpia erano accomiatati da’ pubblici voti ne’ più bei giorni della greca civiltà».
Giornale delle Due Sicilie N. 56 Giovedì, 7 marzo 1822.
Nota
Le lettere citate sono tutte pubblicate in Gioachino Rossini Lettere e documenti, vol. I e vol. IIIa, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992-2004.
Tutte le situazioni descritte in questo articolo sono più ampiamente trattate in Sergio Ragni, Isabella Colbran, Isabella Rossini, Varese, Zecchini Editore, 2012.