UN’ALTRA MODERNITÀ. PER UN PROFILO DI GIAMPAOLO TESTONI
di Marco Gatto
Si ascolti l’incipit della Terza fantasia sinfonica op. 26 (1995): tre fagotti e un clarinetto basso disegnano una linea sonora ombrosa, presaga di avvenimenti inaspettati; i violoncelli vi rispondono con uno slancio improvviso, prima di ripiegare su un grumo dal timbro oscuro; ancora il clarinetto basso enuncia, quasi in tono sommesso, un interrogativo, raccolto nuovamente dagli archi, che ora contribuiscono ad allestire quelle tensioni che, di lì a poco, esploderanno nel canto disperato, ma vitale, del violino. Non c’è una sola nota che non sia rispettosa della narrazione: Giampaolo Testoni sta rappresentando un mondo, sta dipingendo un tableau vivant nel quale si agitano le più varie corrispondenze tra realtà umana e realtà naturale, in un perpetuo dialogo in cui tutti sembrano prendere la parola. Questa tensione narrativa appare così originale, offerta, cioè, senza artificiose mediazioni, perché fonda se stessa sull’unico veicolo cui un compositore possa affidarsi, se ha a cuore l’edificazione di un mondo sonoro condiviso: la melodia. Il canto è l’espressione diretta di una voce che enuncia la sua presenza: e il groviglio delle voci altro non è che il dialogo ininterrotto fra i diversi attori sulla scena. In questa direzione, Testoni è sì il melodista di una modernità che non è finita, che può ancora darsi nelle forme di un disegno musicale e narrativo completo, ma è anche un contrappuntista, secondo una concezione dell’orizzontalità che va di pari passo a ordinarsi con la verticalità armonica, con una naturalezza che viene dall’affidarsi, quasi per intuizione, alle ragioni del canto. Non poteva però darsi cifra originale in questa sapiente rielaborazione di un nesso principale del moderno – quello tra melodia e armonia – se non avessimo, nel tentativo di afferrare la musica di Testoni, il bisogno urgente di dichiarare che siamo di fronte a uno degli ultimi grandi orchestratori della tradizione occidentale. Sinfonista per elezione, compositore che trascina la complessità dell’orchestra entro la pari multiformità dell’azione scenica in quell’opera-simbolo che è Alice (1993) – forse il solo caso, in Italia, di una sopravvivenza decisiva della lezione straussiana –, musicista che fa del dialogo con il passato uno strumento per superarlo, Testoni possiede un pensiero strumentale aperto e rigoroso: l’orchestra è il suo mezzo privilegiato d’espressione, perché l’orchestra è un tutto nel quale potersi muovere, nel quale trovare un’appartenenza fedele (e felice, vitale) all’intuizione musicale che anima le sue partiture.
Si ascoltino ancora le pagine, solo anagraficamente giovanili, e assolutamente definitive, mature, che designano i suoi primi lavori: le due Sinfonie (1983 e 1990), lo splendido Notturno per violino e orchestra (1983) – qui il “nuovo” irrompe dietro una scrittura che guarda all’ideale congiunzione tra discorso musicale e ricerca espressiva, senza cedere all’esibizione smaccata di inusitate soluzioni timbriche. La modernità inscenata non è quella rumorosa e saccente delle avanguardie, né quella a volte solipsistica dello sperimentalismo linguistico: è la modernità che raccoglie la tradizione mahleriana della sinfonia come grande organismo collettivo, che vede in Strauss l’alfiere di una complessità lirica che è profondissimo studio delle possibilità psicologiche ed espressive, che riconosce in Prokofiev e nelle scelte coloristiche della tradizione russa alleati fedelissimi, che non rinuncia tuttavia a quell’irruzione dell’irregolarità che contrassegna la musica di Stravinskij, forse il compositore più amato da Testoni, forse il suo modello più vivo. Viene allora a manifestarsi una dimensione melodico-ritmica – che trova una sua giustificazione nell’importante, e non certo periferica, produzione di musica per balletto – del tutto personale: la narrazione, sempre tesa a una restituzione emotiva del canto, incrocia la complessità temporale; spazio e tempo concorrono a modificare un immaginario, si plasmano a vicenda, così mostrando la genesi di un linguaggio assolutamente personale. E si viene qui a ciò che rende Testoni davvero una sorta di esule o di sopravvissuto: la cifra stilistica, l’irriducibile unicità della sua soggettività autoriale – qualcosa che il Novecento più agguerrito, in tempi di strutturalismo ideologico, ha contribuito a liquidare, di volta in volta ribadendo, da punti di vista solo apparentemente contraddittori perché complementari, la morte dell’autore o il suo semplice nascondimento in una mentalità compositiva soltanto calcolante.
La vera domanda è come sia potuta dunque darsi un’esperienza come quella di Testoni, in un contesto che a lungo ha visto l’egemonizzarsi incontrastato di un certo modo di concepire la composizione. E l’ulteriore quesito riguarda la solitudine vincente di questo autore e se, in questa strenua difesa della modernità, sia uno dei pochi a pensare l’atto artistico ancora nei termini di autentica narrazione condivisa. Da qui, la sua estraneità alle logiche del contemporaneo, non vissuta, però, come una nostalgia dell’assoluto, come un rifugio egoistico, ma come battaglia estetica per una modernità diversa. In che termini? Forse solo nella direzione di un modo differente di concepire l’attività compositiva: non più come la restituzione di un progetto solo e soltanto linguistico, e dunque sommamente manieristico nel suo presentarsi quale esito scientifico di un’elaborazione intellettuale, quanto come atto simbolico di rappresentazione e comunicazione, nell’alveo del quale il compositore, al pari di un qualsiasi altro umanista, si pone il compito di mediare un senso estetico e di condividerlo. Se si riduce questo discorso a una mera differenzialità stilistica, si comprende davvero poco del nostro recente passato o dell’oggi: ciò che è sentito come anacronistico è spesso oggetto di stupida derisione – miopia, questa, di chi non sa porsi il problema di una “non-contemporaneità del contemporaneo” che è sempre presente e che è consustanziale alla modernità. Ora, la cifra originale di Testoni sta nel porsi parimenti contro la semplificazione del contemporaneo entro le forme banalizzanti del neotonalismo e contro quell’ormai storicizzata esperienza (divenuta, per paradosso, anch’essa una tradizione) che è l’avanguardia del Secondo Novecento, con le sue multiformi propaggini. E, lo si deve ribadire, questa scelta testoniana è immediata: la si vede cioè spiattellata senza requie nei suoi primi lavori, fino a divenire identificativa del suo ritratto di compositore nella maturità.
Bisogna allora ricavarne una lezione sul piano storico. La seconda metà del Novecento ha conosciuto l’inasprirsi di una tendenza che era latente fra le due guerre. La pratica compositiva, anche per influsso di dogmatismi filosofici in grado di dominare il quadro culturale, ha scelto un tipo di radicalizzazione linguistica che ha sposato i dettami dell’innovazione, producendo surrettiziamente un’idea di “nuovo” che liquidava anche le estreme conseguenze della modernità. Andava cioè a configurarsi lentamente quella liquidazione dell’individuo entro le maglie della pura tecnica – tradotta in schemi calcolanti, bellettristici, grafistici, quando non in un’esaltazione del particolare timbrico, scisso da qualsivoglia idea di totalità – che i migliori diagnosti denunciavano sin dal Dopoguerra come esito nefasto di una modificazione sistemica più generale. Il ritrarsi della musica colta in sé, fino a concepirsi quale contemporaneità fissa (da qui l’etichetta sempiterna di “musica contemporanea”), sposava, pertanto, una tendenza all’autonomizzarsi della sfera estetica, nel cui allestimento andava a legittimarsi il suo stesso darsi come arte nel mondo. Settorialismo che avrebbe prodotto, lo sappiamo, anche una politica di riconoscimento piuttosto feroce: l’omologazione a un blando concetto di sperimentalismo o di avanguardia escludeva, macchiandoli di pastiche postmoderno o denunciandoli per bieco conservatorismo, i linguaggi più tradizionali (e non ci riferiamo a quell’altrettanto contraddittoria semplificazione che è la stagione minimalista, per quanto segnaletica di un clima). A essere escluso, insomma, era un intero mondo che, in forme quasi resistenziali, continuava a concepire il moderno come un progetto incompiuto, che riconosceva nello sforzo degli ultimi grandi sinfonisti e nelle innovazioni delle avanguardie primonovecentesche una tensione al “nuovo” che tuttavia non mutava i caratteri umani e dialogici della musica. Un affluente così importante veniva sconvolto dall’egemonizzarsi di un discorso culturale anti-umanistico, dietro la facies paternalistica di un invito alla molteplicità. In tal senso, sul piano di una ricostruzione storica, si può dire che la mediazione delle avanguardie, contrassegnata da una lotta a ogni residualità umanistica, aprì le porte alla postmodernità, al culto banale delle differenze, alle incontrollate sinergie linguistiche, a un’idea semplificata del passato, ora concepito come luogo di un ludico saccheggio intellettuale, e infine a una nozione liquida, transeunte, inconsistente di soggetto. Il trucco fece passare le istanze neomoderniste per reazionarie (laddove un pionieristico Habermas aveva indicato, giustamente, che il postmodernismo inaugurava una nuova fase conservatrice); e l’idea di una storicità della musica come del tutto secondaria, perché non rispettosa delle più varie dimensioni prospettiche. Fino ad arrivare ai nostri giorni, segnati forse da un più pericoloso compromesso, che è sintomo di una resilienza ormai condivisa. Le retoriche dell’assoluta libertà stilistica – epifania di una prigione di senso che ha il volto dell’accettazione passiva di un tempo che riserva alla musica solo piccoli mercati di esistenza – oggi trovano nella de-storicizzazione del passato una legittimazione: dimentichiamo il conflitto, inauguriamo un nuovo corso in cui è possibile rastrellare i più vari stili, sembrano dire.
Ecco, se pensiamo al percorso compositivo di Giampaolo Testoni – e, accanto al suo, a quello di pochi altri –, la quota di falsità insita nell’appena menzionata posa culturale appare in tutta la sua evidenza: in più di quarant’anni di attività, Testoni ha continuato a concepirsi quale depositario di un’artigianalità stilistica che non fosse semplicemente il contrassegno egotistico di un artista irriducibile a se stesso, quanto l’unica chiave d’accesso a un’arte davvero socialmente condivisa. In questo, egli è un innovatore che guarda al passato o un anacronista che guarda al futuro: figure che però non rendono l’idea più genuina della sua attività, che è quella di un compositore che mostra, con la sua stessa opera e col suo sforzo di resistenza, una modernità altra, possibile, del tutto diversa. V’è pertanto un sostrato utopico ineliminabile – il suo tempo verrà, potremmo dire con Mahler. Ma nel senso concreto di un giudizio storico che non potrà fare a meno di mostrare l’assoluta centralità di questo agire compositivo, che descrive l’esistenza, lungo tutto il corso del Novecento, di traiettorie che sono state a torto considerate come minori e che invece riescono a trasmettere un’idea differente di innovazione, di dimensione estetica, di lavoro culturale.
Insomma, Testoni è un “caso” perché solleva dubbi sulla ricostruzione storica cui siamo abituati in materia di Novecento. È l’oggi che lo certifica. È il caso di ribadirlo. La paradossale condizione di una libertà infinita che paga il prezzo dell’irriconoscibilità sociale inchioda il compositore oggi a una rivendicazione solo e soltanto linguistica. La differenziazione stilistica appare come una questione esclusiva (che non si pone il problema della fine dello stile, cioè della soggettività). Se tutto ciò è pertinente, bisognerà forse attendere che una nuova forma sociale arrivi a concepire il compito del compositore e dell’artista in modo del tutto diverso: la strada, probabilmente, concerne una riconsiderazione del lavoro culturale. Molti fraintendono tale “missione” confondendola con la rinuncia alla sperimentazione e con l’adesione a un orizzonte comunicativo banalizzante (solitamente descritta con lo slogan del ritorno alla tonalità): tutt’altro; la posta in gioco è più alta, e forse chiama in causa problemi ancor più complessi, su cui occorrerà senz’altro riflettere in tempi non lontani.
La sfera artistica e culturale è oggi articolazione di un sistema più ampio: l’abolizione delle forme tradizionali dell’umanesimo si è convertita in una massificazione del gergo estetico da cui gli individui futuri saranno senz’altro invasi (a partire dalle minime percezioni sensoriali). Isolarsi e dunque consegnarsi a un nuovo gergo settoriale, nelle forme di un ormai assopito effetto di straniamento sul pubblico, significa oggi acquietarsi nella compensazione elitistica di appartenere a una qualche comunità virtuosa. Non potrebbe esserci errore più grande. Al pari di ogni altro intellettuale umanista, il compositore ha oggi l’obbligo morale e politico di orientare il proprio lavoro verso forme di aggregazione sociale capaci di riallestire un possibile alfabeto condiviso. I modi in cui questa ricostruzione del senso andrà configurandosi non sono oggi decodificabili e prenderanno forma attraverso le sollecitazioni del mondo sociale: basterebbe, per ora, porsi le giuste domande.
Ma queste domande è la musica di Testoni – un vero e proprio hapax del contemporaneo – a porle, e non solo nei termini di permanenza del moderno entro un tempo che, apparentemente, lo dissolve. Si guardi alla sua musica come struttura profonda di senso; si ascolti un brano come Frammenti lirici per grande orchestra (2012) oppure si guardi alla grande operazione di rilettura del depositum historiae collettivo che sta alla base delle più recenti Danze popolari immaginarie (2017): qui la tensione narrativa innesca un corpo a corpo con le più varie sollecitazioni esterne, riproponendo una loro riconfigurazione estetica, che non è mai sinonimo di riduzionismo formalistico o di esibito manierismo. C’è una disposizione all’incontro, a identificarsi fino in fondo con il materiale, senza però rinunciare alla tentazione di manipolarlo, gestirlo, costruirlo, abitarlo. In Testoni non esiste alcuna esaltazione dell’Io autoriale, purché si dia per necessaria la sua esistenza stilistica, la sua riconoscibilità. E ciò suona come uno scandalo per le coscienze musicali più agguerrite: perché l’originalità stilistica non è solo un mito categoriale, certamente ricco di contraddizioni e di ambiguità, ma anche un esito da tutti sottilmente desiderato. Dovremmo forse tirare in ballo il concetto di coerenza, se non fosse stato anch’esso sovrainvestito: eppure c’è un’unità linguistica di fondo che dai lavori di Testoni degli anni Ottanta conduce fino alle due opere che si presentano qui allestite. Tale unità linguistica è carattere moderno e, nello stesso tempo, attuale. Perché ci consegna la resistenza di un profilo totale nell’era della dispersione regolata e amministrata, oggi esibita come valore assoluto, in nome di una libertà solo fittizia. Direi persino che questa organicità della proposta testoniana trovi una splendida conferma nella sua opera di trascrittore: quando Testoni scompare dietro Schumann, nella sua resa orchestrale del Carnaval (1998), ci consegna un’ulteriore affermazione stilistica proprio in ragione delle sue capacità mimetiche (che ricordano ancora una volta Stravinskij, il suo rapporto con la musica del passato).
Ogni opera di Testoni è una sfida al contemporaneo e alle sue contraddizioni. Ed è anche, mi si permetta, una sfida di mestiere: di orchestratori così abili ne abbiamo pochissimi, oggi, nel mondo occidentale. La fase in cui siamo entrati, a partire dalla valorizzazione onnipervasiva delle avanguardie, mutatasi presto in una loro museificazione istituzionalizzata, ha segnato anche il collasso della funzione narrativa attribuita all’orchestra, anche quando quest’ultima è stata concepita quale veicolo per soluzioni “atmosferiche”, in verità assai nebulose. Il Secondo Novecento, tolte poche esperienze, è divenuto il tempo del soliloquio strumentale oppure il tempo dell’indistinto timbrico, accanto alla miscela linguistica e alla ricorsività dei moduli ritmici.
Da questo punto di vista, risulta ancor più decisiva la scelta di un teatro musicale che recuperi linearità drammaturgica, che esalti l’intreccio, l’agnizione, e che proietti tale complessità attraverso una resa sonora chiara, netta, persino ancillare alla rappresentazione. E risulta pregnante la volontà di Testoni – che qui esordisce anche come fine librettista, mostrando un’attenzione persino maniacale alle fonti e preoccupandosi di allestire importanti sinergie, in una forma critica di rilettura della traduzione – di recuperare un autore dimenticato (almeno in Italia) come Alfred de Musset, il cui teatro è certamente espressione di un Romanticismo in fiore, ricco però di tensione emotive e di complesse sfumature espressive, pur fermo in una struttura formale saldamente legata ai canoni della tradizione. Fantasio racchiude, del resto, i caratteri tipici del teatro d’immaginazione: lo scontro fra classi sociali, l’incontro tra le diverse identità e l’ambientazione in un luogo imprecisato sono filtrate da un’interrogazione costante sul motivo delle illusioni, delle fantasticherie, delle aspettative tradite, del sogno a occhi aperti. Non poteva Testoni – peraltro fondatore del Movimento neoromantico – non pescare da questo repertorio. E quel che si vorrebbe qui sottolineare è il modo in cui questa vicenda demussettiana viene trasfigurata dal virtuosismo coloristico del compositore milanese, caricandola di ulteriore senso. Si consideri la presenza dell’orchestra, che, pur nelle dimensioni ridotte, suona pervasiva, straussianamente pervasiva, sin dalle prime misure: il disegno ritmico che fiati e archi allestiscono ci conduce subito in un’ambientazione burlesca, nella quale, tuttavia, Testoni è abile a mostrare il gioco di finzione, di travestimento, di nascondimento. La musica regge questo medesimo gioco: nella misura in cui evidenzia il carattere psicologico non sempre lineare dei personaggi, il loro vivere alla luce di un continuo dissidio tra apparenza e realtà. Fantasio è un eroe moderno perché sconta tale frattura tra essere e voler essere: è il travestimento da buffone, adottato per migliorare la sua condizione economica, a generare in lui e negli altri cambi di rotta, possibili metamorfosi. È dunque un teatro musicale dell’identità – del resto, molto shakespeariano –, dell’incontro con l’altro-da-Sé, ma anche con quel profondo altro-da-noi che abita il nostro stesso corpo e la nostra stessa interiorità, al fondo sempre mutevole, sembrerebbe suggerirci la coppia De Musset/Testoni. E, per chi segue la produzione del nostro compositore, non sarà difficile cogliere le modalità espressive che Testoni qui adotta: il lirismo sempre molto rispettoso della parola, il colore orchestrale assolutamente nettissimo, pulito, nessun effetto impressionistico, una chiarezza di intenti che convive con una scrittura virtuosistica ma umana. L’atmosfera si carica di un certo surrealismo favoloso, non già per trascinarci in una dimensione di incredulità, quanto per proiettarci sul terreno di una commedia degli affetti, nutrita però di ambizioni psicologistiche. Il modello è anzitutto Rossini – l’ascoltatore potrà divertirsi a reperire citazioni dal Barbiere da La gazza ladra, che non hanno alcuna funzione meramente ornativa, ma fanno parte di quel rapporto col passato che per Testoni è vitale, tanto più quando rafforza l’obiettivo di un senso condiviso – ma un Rossini che è qui filtrato, quasi per paradosso, alla luce della grande tradizione operistica romantica (l’esperienza compositiva di Alice, in queste nuove commedie, si ritrova tutta per intero, come riferimento imprescindibile e come modello interno alla produzione di Testoni). Per sottolineare quanto l’idea rossiniana dell’equivoco e l’idea classicamente teatrale del travestimento, non a caso i protagonisti delle due commedie sono affidati a voci femminili.
In Fortunio il gioco degli intrighi e degli intrecci ci conduce in una dimensione interpersonale e domestica più evidente. La cura con cui Testoni costruisce i recitativi – si potrebbe parlare quasi di un intarsio –, rendendoli organici alla scrittura orchestrale, e pertanto melodizzandoli come fossero momenti di assoluta liricità, permette alla narrazione di dispiegarsi con una naturalezza musicale che in questo secondo episodio del dittico è davvero esaltata all’ennesima potenza. Si consideri a tal proposito il modo in cui le arie sgorgano dalla tessitura orchestrale, quasi Testoni concepisse il rapporto tra insieme musicale e scena alla luce di un tutto che trova ragione solo nella sua unicità. La finezza di studio psicologico rimanda allora al modo assai eterogeneo con cui l’intreccio strumentale è condotto: ogni strumento è qui protagonista al pari dei cantanti, o costituisce, come nella tradizione wagneriana e straussiana, un ideale controcanto alla pienezza illusoria del discorso testuale. Fortunio è tratteggiato con finezza introspettiva, anzitutto laddove la drammaticità lirica del personaggio si incontra e scontra con il mondo vitale ed eterogeneo dei commedianti.
Alcune atmosfere di Alice sembrano qua e là tornare, in questo dittico. Perché la musica di Testoni in sé reca i tratti di una realtà sonora favolosa e utopistica, che sa però incontrare anche con veemenza le tensioni più aspre del mondo reale. Ed è in effetti questo carattere terreno a enfatizzarsi in Fortunio, quasi vi fosse nella musica un’umana comprensione delle vicende, quasi si accostasse a quest’ultime con l’intento di commentarne, senza moralismi o paternalismi, le ambiguità, le contraddizioni, le difficoltà. Vi è, insomma, una direzione umanistica che emerge fortemente dalla cornice più generale di Fantasio e Fortunio. E si ritiene questa sia una delle qualità più dirompenti che il dittico sprigiona. Scrivere una commedia musicale strizzando l’occhio a Rossini non può essere casuale, in tempi come i nostri. È una presa di posizione sul teatro, sul suo destino, proprio in un momento in cui esso conosce, dopo anni di oblio, una, forse subdola, rivalutazione. Testoni è controcorrente anche in questo senso: nella scelta del soggetto, nel modo in cui concepisce il rapporto tra l’orchestra e la drammaturgia, nel senso musicale più profondo della sua proposta. Sembra cioè voler dire che uno sguardo leggero, ma non per questo banale, sulle vicende umane possa oggi darsi, a patto di assumerlo con una serietà di intenti, come studio appunto umanistico di valori, situazioni, episodi universalmente validi. È un teatro che mira alla concordia umana, non senza una sottile traccia di malinconia, come sempre accade nella musica del compositore milanese, che alterna momenti di folgorante vitalismo ad altri di struggente ombrosità. Ma sono questi caratteri che solo in una musica assolutamente moderna, e per questo profondamente umana, si danno e continuano a darsi. Di ciò dobbiamo essere grati a Giampaolo Testoni.