S'ei piace, ei lice
di Francesco Bertini
Riproposto con successo al Verdi di Trieste - dove appariva per la prima volta - il rarissimo secondo lavoro teatrale di Wagner, commedia shakespeariana dalle tinte solari e mediterranee.
TRIESTE 02 gennaio 2015 - Il teatro Verdi di Trieste è sempre stato lungimirante nella proposta di titoli lirici di rara esecuzione. Benché negli ultimi anni le difficoltà economiche abbiano costretto la fondazione a ridurre i propri orizzonti, l’inaugurazione della stagione 2014 – 2015 ha dato seguito ad una coproduzione con il Bayreuther Festspiele e l’Oper Leipzig per la prima rappresentazione assoluta, nel capoluogo friulano, di Das Liebesverbot di Richard Wagner.
Secondo lavoro del compositore tedesco, inscenato allo Stadt-Theater di Magdeburgo il 29 marzo 1836, Il divieto d’amare trae spunto da Measure for measure di William Shakespeare. Wagner ripristina l’ambientazione palermitana, (a scapito della Vienna shakespeariana) già presente nella novella VIII della quinta giornata degli Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio, il quale influenzò direttamente il Bardo. L’idea di punire la libera sensualità che viene abbinata al popolo italiano, ritenuto all’epoca incline alla “bella vita” mediterranea, è una metaforica condanna della repressione e del perbenismo delle genti germaniche.
Il compositore segue abbastanza pedissequamente la struttura della pièce teatrale, nonostante riferisca di aver lavorato con libertà. L’impegno come direttore musicale, proprio a Magdeburgo, porta il giovane autore a confrontarsi con i grandi compositori europei coevi e precedenti: nella stagione che si sarebbe chiusa con la sua nuova opera, egli programma Lestocq di Auber, Norma e I Capuleti e i Montecchi di Bellini e Jessonda di Spohr. Le influenze che condizionano la stesura di Das Liebesverbot rendono la scrittura pienamente romantica, venata di tinte solari intimamente connesse alla tradizione italiana. Il debutto, a scapito della struttura prossima ai gusti del pubblico d’allora, è disastroso per cause principalmente legate alla preparazione degli esecutori e a beghe sentimentali dietro il sipario. Quello che lo stesso Wagner definisce “peccato di gioventù” rimane ineseguito fino al Novecento quando viene riproposto più per curiosità filologica. Il divieto d’amare contiene alcuni elementi embrionali del noto stile wagneriano che lancia più di qualche occhiata all’avvenire dimostrando, al contempo, di padroneggiare i modelli contemporanei.
L’allestimento giunto a Trieste punta molto sull’elemento comico che pervade l’intero lavoro. La regia di Aron Stiehl, ripresa da Philipp M. Krenn, non lascia alcunché al caso curando attentamente gli aspetti carnascialeschi, con un divertito intento lascivo, com’anche gli ironici riferimenti puritani. Non sfuggono alla curiosa lente d’ingrandimento di Stiehl l’abuso di potere del vicario, del quale è colta l’essenza vanagloriosa e ipocrita, le battute colorite e il carattere peperino di Isabella, l’atteggiamento civettuolo di Luzio e la finta compostezza di Brighella. La risposta scenografica di Jürgen Kirner è di pari efficacia. Davanti a un fondale fisso si aprono, a mo’ di libro, due pareti mobili che creano tre spazi utilizzati per le varie ambientazioni dell’opera: si passa dall’esterno, immaginato come una giungla dove l’uomo è libero, posizionato sulla sinistra, all’interno ecclesiastico sulla destra, mentre al centro, tra le braccia mobili, è ospitata la corte di giustizia che, nel rigore logico delle caselle numerate, stritola col grigiore e la razionalità la creatività e l’istinto. A dar vigore all’impianto scenico vi sono le luci di Claudio Schmid il quale cura le proiezioni fondamentali a ben delineare i vari luoghi. I pittoreschi costumi di Sven Bindseil giocano con le citazioni del Carnevale, libero sfogo all’immaginazione culminante nei richiami a personaggi attuali quali Conchita Wurst. Benché si notino alcune farraginosità nel portare avanti l’intera vicenda con un tale adattamento, il lavoro di gruppo riesce a rendere giustizia all’opera puntando tutto, o quasi, sull’aspetto grottesco e ilare.
In merito alle prestazioni musicali, la situazione pare alquanto sbilanciata. Su tutti si impone l’Isabella di Lydia Easley. Il soprano americano mostra ampia duttilità vocale nell’insidiosa parte che viene brillantemente affrontata grazie all’omogeneità in tutta la gamma, al fraseggio, avvalorato dalla corretta dizione tedesca, e alla lodevole disinvoltura scenica. È efficace anche Anna Shoeck, Mariana di valido afflato e rimarchevole pulizia canora. Meno corretta, al contrario, la Dorella di Francesca Micarelli la quale denota più di qualche difficoltà nella zona acuta dove l’emissione diviene acidula. La prestazione è compensata dall’abile vivacità attoriale.
I due tenori in campo, entrambi chiamati a sostenere una scrittura scomoda, non riscattano degnamente i rispettivi ruoli. Mikheil Sheshaberidze ha limiti tali da pregiudicare la buona riuscita della parte di Claudio. Il cantante georgiano risente di intonazione instabile, seri cedimenti nell’ascesa del pentagramma con suoni sbiancati e fibrosi. È compromessa in tal modo la credibilità della linea di canto, con la conseguente inefficacia nella definizione delle caratteristiche del personaggio. Leggermente più attendibile Mark Adler, Luzio, in particolare per la spigliata presenza scenica. Le tensioni vocali, unite ad un visibile affaticamento durante l’esecuzione, nocciono però alla valida resa dell’effervescente giovane nobile. Il buffo capo degli sbirri Brighella trova nel basso Christian Hübner un valido attore con limiti vocali [l'interprete era però indisposto e si è esibito ugualmente per la difficoltà di trovare un sostituto in breve tempo] caratterizzati da un fastidioso vibrato stretto e frequente nasalizzazione. L’ampia parte di Friedrich è sostenuta da Tuomas Pursio. Il camaleontico artista si cala perfettamente nella parte del villain che condivide più di qualche peculiarità tipica dei “cattivi” dell’opera semiseria italiana. Il basso – baritono finlandese riesce persino ad assomigliare alla maschera di Guy Fawkes, meglio noto per le sembianze adottate nel lungometraggio V per Vendetta, che lo scenografo presenta in scena, durante le licenziose scorribande carnevalesche, abbinandovi i connotati di Friedrich. Lo strumento di Pursio ha dalla sua l’importanza del timbro e l’efficacia del fraseggio nonostante certe sfumature, a causa dell’intonazione e di alcune genericità, corrano il rischio di rimanere confinate alla pura intenzione.
Gli interpreti restanti si sono disimpegnati con alterna validità. Cristiano Olivieri è Antonio, Gianfranco Montresor, Angelo, a Pietro Toscano compete il ruolo di Danieli e a Federico Lepre quello di Ponzio Pilato.
Il concertatore Oliver von Dohnányi imprime alla lettura un ritmo serrato. Le intuizioni sono sottoscrivibili per la vibrante intensità e l’energico piglio ma sollevano qualche dubbio per le dinamiche, sovente troppo rimarcate. L’Orchestra del Teatro Verdi si accosta rispettosamente, malgrado qualche sbavatura, alla partitura wagneriana. Il coro della fondazione friulana, preparato da Paolo Vero, partecipa all’esecuzione in maniera attenta.
I vuoti in sala non scalfiscono il successo della produzione che ottiene ampi consensi al termine.
foto Fabio Parenzan