L’esperienza di Don Pasquale
di Francesco Lora
Il riuscito spettacolo di Italo Nunziata passa dai teatri di tradizione alle più importanti scene della Fenice. Ad attenderlo v’è la disinibita concertazione di Omer Meir Wellber e un quartetto vocale dove il mestiere di Roberto Scandiuzzi detta legge.
VENEZIA, 22 febbraio 2015 – Ben venga la promozione sul campo, quando il merito è manifesto. Il Don Pasquale di Gaetano Donizetti era andato in scena a Padova nel 2002, e più di recente a Treviso e Ferrara nel 2011/12, in un allestimento con regìa di Italo Nunziata e scene e costumi di Pasquale Grossi. Per quattro recite dall’8 al 22 febbraio scorsi, il Teatro La Fenice di Venezia ha rispolverato quell’allestimento: nato in provincia e in economia, esso ha nondimeno indubbi pregi nell’idea, e vanta sufficiente maneggevolezza per potersi alternare con altri due spettacoli sullo stesso palcoscenico negli stessi giorni. Il pregio principale è quello di cogliere il capolavoro donizettiano nella sua essenza di commedia borghese, brillante quanto si vuole ma non ridanciana senza motivo. Così, la mano del regista rimane leggera: l’indagine cordiale dei caratteri prevale sull’invenzione di controscene comiche, mentre la divisione della scena in più vani rende possibile l’isolarsi dei personaggi per confidenze a sé stessi o per un più credibile confabulare complice.
Il tono e il ritmo dell’azione sono dettati dal direttore Omer Meir Wellber: alle prese con una partitura dalla strumentazione ponderosa, egli preferisce sfogare allegramente piuttosto che contenere in una nuova disciplina; ne esce un Donizetti tardoromantico, caldo e mediterraneo, avido di estremi agogici e dinamici. La compagnia di canto non cala i quattro assi alla base della prima parigina del 1843, ma ostenta un protagonista d’eccezione, un giovane baritono da tenere d’occhio e una coppia di amorosi onesta e ben assortita. Come Don Pasquale, Roberto Scandiuzzi è la meraviglia dell’esperienza: possiede la massima parte del repertorio di un grande basso e, padrone di quel vocabolario sterminato, si concede un’inusuale incursione nella parte buffa che fu di Luigi Lablache; con corpo e timbro di superba sugosità, afferra la parola e la restituisce perfettamente intelligibile; ne mastica ogni sillaba secondo l’umore del personaggio; sfuma ovunque il porgere tra illusione, pretesa e sarcasmo; coglie non solo la sintesi tra testo verbale e testo musicale, ma per istinto sa fino a quale giusto grado di licenza possa spingersi l’attore, onde impossessarsene appieno senza far torto all’opera e all’autore.
Solo nel sillabato veloce del duetto nell’atto III si lascia bagnare il naso da Davide Luciano, baritono di recente emerso nell’agone buffo e qui impiegato come Dottor Malatesta. Mentre Scandiuzzi piega il proprio impero vocale a più sottile circostanza, egli scatta con perizia tecnica e simpatia attoriale in quello che è il suo naturale bacino. Più timida e introversa risulta la coppia di innamorati, recuperando forse qualcosa del carattere degli interpreti. Il soprano Barbara Bargnesi, come Norina, interpola infatti note sopracute a ogni occasione, ma riconferma la propria natura sostanzialmente lirica, cantabile, più sorniona che viperina, senza traccia di tensione alle attitudini di una primadonna belcantista, come fosse stata prestata da Nino Rota al teatro di Rossini, Donizetti e Bellini. A sua volta il tenore Alessandro Scotto Di Luzio dà luogo a un Ernesto di buona tenuta tecnica nell’elevata tessitura, accattivante per timbro, signorile e stilizzato prima che impulsivo e ribelle. Ineccepibili orchestra e coro.
foto Michele Crosera