Largo ai veterani
di Pietro Gandetto
Il barbiere di Siviglia del Progetto Accademia del Teatro alla Scala con Leo Nucci e Ruggero Raimondi ad affiancare - come colleghi e preparatori - i più giovani interpreti. I due veterani dominano la produzione, invero, un po' sbiadita e poco convincente sotto diversi punti di vista.
MILANO, 29 luglio 2015 - L’idea di affidare in parte a un cast giovane (composto dagli artisti dell’Accademia del Teatro alla Scala) e in parte a un cast di consolidata esperienza (Leo Nucci e Ruggero Raimondi) l’opera più nota al mondo, vale a dire il Barbiere di Siviglia di Rossini, è stata indubbiamente audace e, per certi versi, anche, abbastanza condivisibile; ma una scelta di questo tipo sconta inevitalmente alcuni limiti sotto il profilo della resa globale dello spettacolo, dei quali purtroppo ha risentito la recita di Barbiere andata in scena al Teatro alla Scala.
E infatti, il progetto Accademia del Teatro alla Scala - i cui giovani artisti sono stati affiancatii dai Maestri Nucci e Raimondi, nel doppio ruolo di coach vocali e di co-protagonisti - non ha convinto fino in fondo.
E’ fatto noto che uno dei motivi sottesi all’intramontabile successo del più celebre capolavoro rossiniano è la modernità dell’opera: 600 pagine di musica che trasmettono a ogni misura innovazione e freschezza sia in un’ottica ex ante (tant’è vero che la prima rappresentazione del 1816 generò uno dei fiaschi più clamorosi nella storia del melodramma) sia in un’ottica ex post, come dimostra il linguaggio, ancor oggi, attuale e aderente alla psicologia e all’instabilità emotiva dei personaggi. Una modernità che ha fatto del Barbiere un’opera buffa nel senso più sofisticato del termine, soprattutto ove paragonata ai canoni farseschi che hanno caratterizzato in buona parte il genere fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento.
Tutta questa modernità, però, non si è vista nella rappresentazione dell’altra sera. E qual sia il motivo di ciò non è così facile a dirsi.
L’allestimento è una ripresa della produzione del raffinatissimo registra francese Jean-Pierre Ponnelle, concepito nel 1969 (56 anni fa) in collaborazione con il Maestro Claudio Abbado e che presentava in allora un cast memorabile composto da Teresa Berganza, Hermann Prey, Luigi Alva. Se da un lato è fuor di dubbio che l’idea regista sottesa a questa produzione sia ancor oggi qualitativamente valida e, per un verso, ancora apprezzabile, da un altro lato, però, è innegabile che gli spettacoli come questo fanno i conti con il passare del tempo. Tra i limiti di questo spettacolo, evidenziamo le gag ormai inefficaci nella resa della vis comica rossiniana (si pensi, ad esempio, ai continui starnuti di Berta, alle imitazioni di Rosina da parte di Bartolo o ai colpi di Ambrogio contro lo stipite della porta), l’ambientazione già vista e stravista, l’enfasi retorica di alcuni interpreti.
Venendo alla musica, e iniziando dall’orchestra, l’ouverture del Maestro Massimo Zanetti – “riciclata” da Rossini dalla precedentemente opera seria Aureliano in Palmira – non ha entusiasmato per carattere e incisività. Considerata la funzione originale dell’ouverture – che era quella di avvertire il pubblico che lo spettacolo stava per iniziare, richiamandoli così all’attenzione e al silenzio – sembra che non sia stata efficacemente perseguita nell'esecuzione ascoltata l’altra sera, esageratamente incalzante nei tempi ed eccessivamente amplificata nei volumi. Anche il resto della conduzione del Maestro Massimo Zanetti è stato purtroppo insoddisfacente: i tempi troppo spediti hanno impedito di poter godere appieno delle modificazioni agogiche rossiniane, mettendo spesso in difficoltà i cantanti e, in generale, creando uno stato di confusione che ha impedito di apprezzare i morceaux d’ensemble vocali e ha eroso, in parte, la brillantezza della partitura. Poco convincente anche il coro dell’Accademia che è parso un po’ dozzinale nella linea del canto e spesso sganciato dall’orchestra.
Venendo ai cantanti, se da un lato va tenuta presente, come parziale esimente, la giovane età degli interpreti dell’Accademia, da un altro lato non può certamente ignorarsi la mancanza di contributi sufficientemente incisivi e convincenti ad eccezione dei due mostri sacri dell’opera, Ruggero Raimondi e Leo Nucci.
Sulla Rosina di Lilly Jørstad, s’impone in limine una precisazione e cioè il fatto che i ruoli come questo, sui quali, in ormai quasi due secoli, tanto si è detto, cantato e scritto, andrebbero forse approcciati con una maturità artistica di altro tipo, proprio perché richiedono un’indagine psicologica e una maturità musicale ben superiori a quelle dimostrate dalla giovane cantante. Sotto il profilo vocale, la voce è apparsa di buon colore, ma a tratti aspra e disomogenea negli acuti, sganciati dal resto della tessitura. Il fraseggio non è quello che occorre per affrontare un ruolo come questo. La presenza scenica non è male, considerata anche l’indubbia graziosità della cantante, ma l’interpretazione non denota mai un approfondimento psicologico e ciò che se ne trae è un personaggio privo di spessore. In sintesi, una Rosina né “docile” né “vipera”.
Poco incisiva anche la performance di Edoardo Milletti quale Conte di Almaviva. La voce, pur di qualità, non è pronta negli acuti che sono spesso “lanciati” senza il minimo appoggio e incoerenti con gli altri registri. L’interpretazione è scolastica e "Se il mio nome" – anche a causa dei tempi davvero incalzanti – è volata via senza un minimo di carattere e di atmosfera, precludendo al pubblico la possibilità di godere appieno dei colori e delle sfumature di questa pagina rossiniana.
Buono il Bartolo di Giovanni Romeo, che ha dimostrato di avere una voce di bel colore, agile e ben amministrata e sempre a fuoco nell’intonazione e nel fraseggio. Anche sotto il profilo scenico – escluse le gag, come detto, poco coinvolgenti – il personaggio è reso con la giusta naturalezza.
Sufficiente la performance del soprano egiziano Fatma Said, dotata di una bella voce, ma intrappolata in una Berta eccessivamente retorica. Eccessivo il Fiorello di Kwanghyun Kim che nel "Piano Pianissimo" iniziale era completamente sconnesso dall’orchestra e, in generale, sempre eccessivo nei volumi.
Che dire di Leo Nucci? Classe 1942, anni 73, il baritono emiliano ha dato prova di possedere ancora un’energia e un’agilità fisica e vocale da far invidia a cantanti che hanno la metà dei suoi anni. Si cala da un pertica, salta, corre come un ragazzino. E la voce non è da meno. Ancora sonora, ben proiettata e sicura in tutte le insidie del ruolo di Figaro, indiscusso cavallo di battaglia della sua gloriosa carriera. Quanto all’interpretazione, non può sottacersi il fatto che rispetto all’enfasi retorica tipica di un modo di cantare Rossini, si crede, un po’ datato, sarebbe stato bello vedere qualcosa di nuovo. Ma non sarebbe stato Leo Nucci. Tripudio di meritatissimi applausi a scena aperta dopo "Largo al factotum", eseguito con la freschezza e la grinta di un trentenne.
Analoghe parole di elogio per il Basilio di Ruggero Raimondi. Vista l’epoca in cui viviamo, dove le voci di certo non mancano, ma invece purtroppo non durano, si stenta a credere che lo smalto e a la verve della voce di un Raimondi siano rimasti così intatti negli anni. Una voce ancora imponente, sorretta da un fraseggio elegante, maturo e rassicurante. La sua “calunnia” scalda gli animi e coinvolge il pubblico che scoppia in un fragoroso applauso a scena aperta, con l’ombra di Ruggero Raimondi proiettata sul palcoscenico a significare la vittoria dell’interprete sul tempo che passa.
A fine spettacolo, copiosi battimani per tutti gli interpreti e ovazioni per Leo Nucci e Ruggero Raimondi.
foto Brescia Amisano